venerdì 22 luglio 2022

famedio

Di certo dall’ interscambio espositivo tra Comune e Reggia del Palazzo Ducale, esemplificato in una foto emblematica di S. L’Occaso e V. Ghizzi, molto può sortire di buono, anche se più che altro è un rispolvero di precedenti progetti, nel solco di incongruenze museali non da poco quanto a Palazzo San Sebastiano, che a suo tempo indussero a tentare di porvi rimedio trasformandolo da Museo della città in un Museo del collezionismo delle civiltà antiche della città (Mcca), ( esportando dove i cimeli che vi erano tutt’altra cosa ?). Ma ahimè, altre dolenti note nel contempo si sono fatte sentire, e mi riferisco alla movimentazione nel Famedio dei reperti del Museo civico del Palazzo di San Sebastiano che ne facevano parte o che erano d’epoca albertiana. Premetto che è da quando ho lasciato l’ insegnamento ed intervengo sulla stampa locale che ho sostenuto l’apertura museale del Famedio, ma non certo nei modi in cui ho visto che si è risolta. Purtroppo, disdegnando provincialisticamente l’intelligentsia e l’editoria in loco, sempre che non siano famuli di corte, i nostri politici che ci amministrano tendono a compensare il loro scarso respiro culturale appellandosi ai nomi di grido, le archistar o le vedettes mediatiche, a uffici e consulenti rinomati, confacendosi così a tutta la debole leggerezza dei loro paradigmi in auge, e spesso a tutto l’ opportunismo e la furberia profittatrice che li anima, in un rapporto asimmetrico che vede questi ultimi fare la parte dei leoni rispetto a politicians tutt’altro che avveduti . Purtroppo ciò che ditte e progettisti altamente specializzati si sono limitati a compiere in tale circostanza è un mero trasloco di reperti e di schede illustrative, per lo più ricalcate, il tutto trasfigurato grazie a effetti scenici speciali e di illuminotecnica abbagliatrice. Hanno smembrato due intere sezioni del Museo civico di San Sebastiano e con esse il discorso che esprimevano, sintetizzato da A. Calzona in La città del Principe e da G. Malacarne in Emblematica gentilizia ( Mantova, il Museo della città) , senz’ altra motivata ragione di fondo che non fosse il vagheggiamento turisticheggiante che potevano richiamare plasticamente il Mantegna, quanto alla della selezione dei reperti d’epoca che non costituivano l’apparato decorativo del San Sebastiano, così rimasticando ciò che le schedature stesse del Museo civico avanzavano ma tendevano ad escludere in termini più approfonditi e meditati. Sulla simbologia araldica delle imprese nulla di interpretativo Ma cosa ancora più grave, davvero imperdonabile, a mio avviso, è che eccettuate poche righe di un pannello d’esordio, il discorso non è risalito dal’ apparato decorativo che è stato così prelevato di peso dal palazzo di San Sebastiano all’ architettura del tempio di cui facevano parte, non che alle altre opere esimie dell’Alberti, e al suo pensiero speculativi, nulla di nulla, nemmeno un accenno anche al solo dato simbolico che i putti ghirlandofori potrebbero alludere ad una destinazione funeraria del tempio , come di fatto si è adempiuto elevandolo a Famedio. Nemmeno ci si è preoccupati di recuperare non solo a parole, e con vaghezze grafiche, lo schizzo di Antonio Lobacco , -c’è pure per l’evenienza la medaglia Giovanni Lanfredini, dello Sperandio, ch’effigerebbe l’aspetto originario del tempio , reperibile senza sforzi di sorta anche in wikipedia,- e tantomeno ci si è dati da fare attraverso reperti fotografici per mostrare come appariva il tempio prima del discutibile restauro di Andrea Schiavi, e quali alterazioni costui abbia apportato . Si capisce benissimo, in tal senso, perché siano stati trattati con tanta sufficienza e dabbenaggine i modellini lignei della mostra albertiana del 1994, tutto il sapere e l’attività di ricerca pregressa. Bella profondità di concezione e di pensiero, di tali ditte altamente specializzate … Forse si è pensato che non valeva la pena di darsi da fare più di tanto per il tempio di San Sebastiano, un opera il cui interno di sublime semplicità grandiosa forse richiede che sia illuminato, che so, dalla visione delle architetture di Louis Khan per essere compreso. Chissà… Odorico Bergamaschi

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