martedì 23 ottobre 2012

in Vyas Badora



A Vyas Badora

 

 

 

 

 
Neanche al crocevia di M*. dove eravamo appena scesi dal bus diretto a Mahoba, attardandoci per incrociare quello proveniente da Chhattarpur in direzione di Lori, o Londi, o Laudi, sul cui bisticcio nominale ero arrivato quasi a bisticciarmi di fatto con Kailash, sapevano dirci alcunché di preciso su dove mai fossero Vyas Badora o Hindora Vari. Di Badora ne esistevano due, a quel che  pareva, situate quanto mai vicine, o parecchio distanti, a seconda dell'uno o dell'altro degli astanti, come di Brijapur ne avevamo discoperte già almeno due nel distretto di Chhattarpur, e non avevamo ritrovato Kishangarh senza che ci fosse una Kishanpur a precederla, quanto nel Madhya Pradesh non c’è Chanderi senza una sua opposta Chandrei, una Narshimhapur senza una corrispettiva Narshinghgarh . Anche solo limitandoci a Hindora Vari, in Lori si tramutava a dire di alcuni in una Ellora Vari di indefinita collocazione, il che ci frastornava ancor più di quanto già non lo fossimo, all’arrivo nella sua polverosa animazione diurna, di mercati e traffico, che si disarticolava in un complesso mal connnesso di strade, a dispetto della suggestione del sito, diramantesi ai piedi dei dirupi tra cui la via che vi immetteva si apriva il varco, e su cui si arroccavano dei santuari intorno. Ma Lori non poteva essere più che un inquietante luogo di sosta, a seguito dei recenti accadimenti che il penitenziario locale evocava a Kailash, egli  vi era di ritorno in capo a pochi giorni, dopo che aveva dovuto mettervi piede con il fratello, e lo zio materno, per ottenervi la scarcerazione del padre grazie alla cauzione in terreni assicuratagli dal cognato, a rimedio del guaio cui era servita per davvero tutta la stupidità del padre per procurarselo. Di sua spontanea iniziativa si era recato dalla stazione di polizia locale per denunciare le percosse che alla moglie erano state inflitte dal fratello sadhu, miserabilissimo, e che da tempo non c’è più gran che con la testa, in combutta con la propria di consorti, senza tenere conto che li  aveva malmenati entrambi a sua volta. Il tutto era stato originato dalle presunte maldicenze della madre di Kailash sul conto  della figlia del sadhu, che sarebbe stata da poco malmaritata, secondo quanto avrebbe detto, con una famiglia della stessa casta ancor più povera della loro. Alla denuncia la polizia aveva convocato l’accusato, e di fronte alle opposte versioni cui si era trovata di fronte, li aveva fatti trasferire entrambi nel centro di polizia del tehsil, in Rajnagarh, da cui, essendo di domenica e non potendo essere chiamati in causa avvocati e garanti delle cauzioni, le autorità locali di polizia avevano pensato bene di trasferire entrambi i contro accusantisi nel carcere mandamentale di Lori.Cosi mio padre ha almeno imparato quel che si ricava in India a trarre di mezzo la polizia, rovinando la reputazione dei propri figli”, la morale dell’accaduto trattane quei giorni da Kailash .Ora egli s’aggirava da un conducente all’altro, in cerca di chiarimenti sulle nostre destinazioni che fortunatamente erano invece al più turistiche, cercando insieme con me la collimazione delle diversioni dislocazioni di Vyas Badora, una qualche  concordanza sinottica tra quanto ce ne dicevano i rivenditori di bibite e di somosa e di pokora a cui avevamo già chiesto ragguagli. Dopo avere tergiversato con dei conducenti che erano di Mahoba, e che alla vista della mia "white face" prontamente avevano giocato al rialzo della tariffa richiesta, prima ancora di chiedersi che ne sapessero di dove dovevano portarci, il suo spirito di iniziativa ch'era al mio fedele servizio non meno di un Garuda genuflesso riguardo al suo Vishnu, si concretizzava ben presto nel prdisporsi di un conducente affidabile di un fuoristrada, che aveva ritrovato sospingendosi al di là dei chioschi di banane e mango e fiori e altra frutta, per una tariffa conveniente verso una destinazione di cui ci convinceva che sapesse dov'era: oltre Chandla, a cui recava l’arteria stradale su cui pochi minuti dopo eravamo già avviati.
Vi iniziava così una veloce corsa, che già in Moreri, dai caseggiati suggestivi di malta, avrebbe dovuto arrestarsi al posto di blocco di alcuni adepti della Mahadeva, che essendo nell’imminenza di Navaratri intimavano l’alt alla nostra ed alle altre autovetture, taglieggiando un contributo per l’allestimento dei suoi festeggiamenti. Non ci restava che  arrendersi alla richiesta per poi sottostare al rallentamento, ininterrotto, che imponeva l'infittirsi delle buche lungo il percorso, un tormento continuo di soprassalti e sterzate, nei tentativi figli l'uno dell'altro di eludere i crateri interminabili del fondo stradale,  dato che una schivata  ripresentava immediatamente la necessità di una ulteriore, per evitare la nuova frana che la scansata proponeva  davanti.  Ancor più che tra Rajnagarh e Lori, il paesaggio intorno si faceva arido e sempre più spoglio di piante e di alberi, tra i rilievi collinari che si diradavano all’orizzonte.  "No dams, less water”, la ragione della siccità crescente che  Kailash era venuto sempre più sentenziando, da che, appena poco oltre Rajnagarh, avevamo finito di costeggiare sbarramenti di dighe. La strada che percorrevamo aveva finito intanto di conoscerla già, da che avevamo superato la casa in cui viveva una sorella del padre. Ancor più desolante sarrebbe apparso lo stato dell’arteria stradale lungo la quale  Chandla si snoda,  tra la polvere dello sterrato dissetato in cui si era scrostato il manto stradale, avvallandosi in scoscendimenti pietrosi, per chilometri e chilometri digradavano in scoscendimenti i negozi e i chioschi  circostanti , e procedeva in una foschia chi percorreva la strade. Svoltavamo infine a destra per Vyas Badora, e lo stato del percorso migliorava solo di poco, nei pochi chilometri ancora restanti, chiedevamo dell’abitato del villaggio a un anziano che vi sostava ai margini con altri coetanei, e ci diceva di svoltare a sinistra, all’altezza di un albero di mahua. Il sentiero su cui così ci immettevamo, tra dei filari di alberi  finalmente ci riconduceva ad amenità di luoghi e ci immetteva in Vyas Badora, poco più che un villaggio sparuto, ma quanto incantevolmente “ remote and lonely”, nelle sue case smaltate di fango candido ed ocra, al limitare delle cui soglie delle donne erano intente al trancio di canna da zucchero, presso le ruote girevoli degli attrezzi ad uopo. Oltre i massi che  il residuo villaggio intorniava, gli abitanti ci confermavano la sussistenza dei mandir di cui non avevamo ancora traccia, la loro realtà ci sembrava ancora del tutto incredibile, quando la loro apparizione si materializzava in una visione che stupefatto mi lasciava d’incanto. Laddove, stando alle immagini che ne avevo desunto in rete, mi aspettavo di vedere ergersi al più degli ammassi di rovine templari, a dispetto della natura incognita e remota del sito, sconosciuta ai più negli stessi dintorni, tra i massi prospicienti che digradavano verso un’ampia vallata nell’imminenza del Ken river, percorsa da mandrie di bufali al pascolo, sullo sfondo del profilarsi ameno di ulteriori rilievi a perdita d'occhio, sovrastava i ponteggi di un cantiere la sopraelevazione in corso di un grandioso tempio gemellare,
oltre il quale le celle porticate di altri due templi si offrivano alla vista. 
Dal corpo del tempio  sorgeva il rudimento del pietrame interno delle coperture dei due sikkara, ad assimilarli a monchi altiforni.
Accedevamo al santuario da una rampa laterale della sua piattaforma e ci ritrovavamo nel mandapa della sala antecedente la cella di uno dei due garbagriha.Tale sala era interconnessa con quella, ad essa parallela, in cui un Nandi diruto /dirupato* sostava in adorazione interminabile al suo dio.
La copertura della sala che dava adito al tempio era a guisa di volta, e la costituivano circoli di rilievi delicati,
 mentre era quadrangolare la trabeazione su cui era impostata la copertura dell’atrio, o ardamandapa, del portico d'entrata che la precedeva,
sostenuto da corti pilastri, ed affiancato da un identico ingresso ad esso parallelo,  per chi avesse risalito i gradini di quello che era l’accesso principale al loro sito gemino di culto.
I portali del garbagriha recavano stipiti ornamentali secondo moduli canonici, non fosse che il canopo delle divinità fluviali,  assecondate nelle loro flessuosità tribhanga da attendenti naga, sortiva nelle sue volute da kirtimukka leonini,
Lungo le pareti esterne e le altre all'interno, la profusione decorativa  dei portali delle celle dei santuari era precorsa / anticipata da  profili continui  di diamanti, in una decorazione geometrica contrappuntata da reticoli, o jali,di quadrettature di dadi.
Alle  estremità dei pilastri apparivano i tripudi di foglie di vasi dell'abbondanza, desunti dalla loro germinazione ancora fervidamente naturalistica nei templi Gupta, ma che le maestranze del tempio avevano stilizzato i in forme geometricamente assai più astratte, che preludevano alla loro stampinatura lineare nei tempi Chandella di Khajuraho. Le sforature in oculi di cielo delle volte cadute delle sale di accesso alle celle di Shiva, propiziavano l’eccesso estatico del percorso del tempio.
Più a sud , digradante, era il Chausat Yogini mandir,
costituito dall’incrocio di due transetti, sviluppato in  una galleria dall'inserto di quattro corpi d'angolo
da cui i quattro portici d’accesso
risalivano al santuario centrale,
mentre le edicole delle sessantaquattro Yogini, con  alcune  forse in aggiunta, riservate come in Khajuraho alle loro divinità alleate, erano disposte all'interno e all’esterno del deambulatorio che sulla piattaforma consentiva la pradakshina intorno al santuario. Di rilievo il motivo nel basamento del portale d’ingresso alla cella della Dea, una kalasha, tra due volute,
come ad esempio nel tempio Lalguan di Khajuraho, che era dedicato a Shiva ed è poco distante dal tempio delle 64 Yogini.

 
Già viene calando la fumosità diurna, quando dai templi lo sguardo torna ad allargarsi all’intera vallata, agli armenti che ancora vi sostano al pascolo, ai ragazzi che li accudiscono attenti,  agli abitanti del villaggio che lungo i tracciati dei suoi percorsi vi fanno ritorno, ed è già sera quando siamo di nuovo all’ingresso del villaggio, e Kailash intravede sulla nostra destra un altro tempio tra i campi, chiedo di fare una sosta e vi giungo da solo, tra i rovi non ne sopravvive che la cella, che reca sulla soglia lo stesso motivo ornamentale di quello d'accesso al sanctum del tempio delle Yogini.

 
Seguitavamo il rientro per la diversione di un sentiero di campagna, ove nel corso della stagione monsonica trattori e carri avevano lasciato i solchi di un rivolgimento talmente in profondo,  che sconquassava  il pulmino e le nostre viscere mettendoci  con  l'autoveicolo a dura prova, fintantoché non ne uscivamo a pochi chilometri da Chandla.

 
Senza più la luce del giorno e rare essendole lampade accese, lasciava sgomenti l’attraversamento di Chandla lungo l’arteria stradale principale,  popolata di persone che avanzavano tra le tenebre di negozi affacciati nel buio di un continuo dissesto pulverulento, senza che se ne potesse trarre respiro che una ventina di chilometri dopo, quando il fondo del percorso tornava a farsi un ammanto stradale fino a Khajuraho.

23 ottobre 2012


 














Neanche al crocevia di M*. dove eravamo appena scesi dal bus diretto a Mahoba, attardandoci per incrociare quello proveniente da Chhattarpur in direzione di Lori, o Londi, o Laudi, sul cui bisticcio nominale ero arrivato quasi a bisticciarmi di fatto con Kailash, sapevano dirci alcunché di preciso su dove mai fossero Vyas Badora o Hindora Vari. Di Badora ne esistevano due, a quanto pareva, situate quanto mai vicine, o parecchio distanti, a seconda dell'uno o dell'altro degli astanti, come di Brijapur ne avevamo discoperte già almeno due nel distretto di Chhattarpur, e non avevamo ritrovato Kishangarh senza che ci fosse una Kishanpur a precederla, quanto nel Madhya Pradesh non c’è Chanderi senza una sua opposta Chandrei, una Narshimhapur senza una corrispettiva Narshinghgarh . Anche solo limitandoci a Hindora vari, in Lori si tramutava a dire di alcuni in una Ellora Vari di indefinita collocazione,  all’arrivo nella sua polverosa animazione diurna, di mercati e traffico, che si disarticolava in un complesso di anonime vie, a dispetto della suggestione del sito, ai piedi dei dirupi tra cui la via che vi immetteva si apriva il varco, e su cui si arroccavano dei santuari intorno. Ma Lori non poteva essere più che un inquietante luogo di sosta, a seguito dei recenti accadimenti che il penitenziario locale evocava a Kailash, che vi era di ritorno in capo a pochi giorni, dopo che aveva dovuto mettervi piede con il fratello, e lo zio materno, per ottenervi la scarcerazione del padre grazie alla cauzione in terreni assicuratagli dal cognato, a rimedio del guaio cui era servita per davvero tutta la sua stupidità per procurarselo. Di sua spontanea iniziativa si era recato dalla stazione di polizia locale per denunciare le percosse che alla moglie erano state inflitte dal fratello sadhu, miserabilissimo, e che non c’è più gran che con la testa, in combutta con la propria di consorti, malmenandoli entrambi a sua volta. Il tutto era stato originato dalle presunte maldicenze della madre di Kailash sulla figlia del sadhu, che sarebbe stata da poco malmaritata con una famiglia della stessa casta ancor più povera della loro. Alla denuncia la polizia aveva convocato l’accusato, e di fronte alle opposte versioni cui si era trovata di fronte, li aveva fatti trasferire entrambi nel centro di polizia del tehsil, in Rajnagarh, da cui, essendo di domenica e non potendo essere chiamati in causa avvocati e garanti delle cauzioni, avevano pensato bene di trasferire entrambi i contro accusantisi nel carcere mandamentale di Lori.“ Cosi mio padre ha almeno imparato quel che si ricava in India a trarre di mezzo la polizia, rovinando la reputazione dei propri figli” la morale dell’accaduto trattane quei giorni da Kailash .Ora egli s’aggirava da un conducente all’altro, in cerca di chiarimenti sulle nostre destinazioni fortunatamente invece turistiche, cercando insieme con me la collimazione delle diversioni dislocazioni di Vyas Badora, una qualche  concordanza sinottica tra quanto ce ne dicevano i rivenditori di bibite e di somosa e di pokora a cui avevamo già chiesto ragguagli. Dopo avere tergiversato con dei drivers che erano di Mahoba, e che alla vista della mia "white face" prontamente avevano giocato al rialzo della tariffa richiesta, prima ancora di chiedersi che ne sapessero di dove dovevano condurci, il suo spirito di iniziativa al mio fedele servizio non meno di un Garuda genuflesso al suo Vishnu, si concretizzava ben presto in un conducente affidabile, che aveva ritrovato sospingendosi al di là dei chioschi di banane e mango e fiori e altra frutta, per una tariffa conveniente verso una destinazione di cui ci convinceva che sapesse dov'era: oltre Chandla, a cui correva l’arteria stradale su cui eravamo già avviati.
Vi iniziava così una veloce corsa che già in Moreri , dai caseggiati suggestivi di malta, avrebbe dovuto arrestarsi al posto di blocco di alcuni adepti della Mahadeva, che nell’imminenza di Navaratri intimavano l’alt alla nostra ed alle altre autovetture, taglieggiando un contributo per l’allestimento dei suoi festeggiamenti. Non ci restava che  arrendersi ad essi e al rallentamento ininterrotto, successivo, che imponeva l'infittirsi delle buche lungo il percorso, fino a farlo il tormento continuo di soprassalti e sterzate digressive, nei tentativi uno dopo l'altro di eludere i crateri interminabili del fondo stradale. Ancor più che tra Rajnagarh e Lori, il paesaggio intorno si faceva arido e rado di piante e di alberi, tra i rilievi collinari che si diradavano all’orizzonte . “ No dams, less water” la ragione della siccità crescente che  Kailash era venuto sentenziando, da che, appena poco oltre Rajnagarh, avevamo finito di costeggiare sbarramenti di dighe. La strada che percorrevamo aveva finito intanto di conoscerla, da che avevamo superato la casa in cui viveva una sorella del padre. Ancor più desolante era lo stato dell’arteria stradale di Chandla, in cui tra la polvere dello sterrato dissetato in cui si era scrostato il manto stradale, avvallandosi in scoscendimenti pietrosi, per chilometri e chilometri, affondavano i negozi circostanti e chi percorreva la strade. Svoltavamo infine a destra per Vyas Badora, e lo stato del percorso migliorava di poco, nei pochi chilometri ancora restanti, chiedevamo dell’abitato del villaggio a un anziano che vi sostava ai margini con altri coetanei, e ci diceva di svoltare a sinistra, all’altezza di un albero di mahua. Il sentiero su cui così ci immettevamo, tra filari di alberi  finalmente ci immetteva in Vyas Badora, era poco più che un villaggio sparuto, ma quanto incantevolmente “ remote and lonely”, nelle sue case smaltate di fango candido ed ocra, al limitare delle cui soglie delle donne erano intente al trancio di canna da zucchero, alle ruote girevoli dell'attrezzo ad uopo. Oltre i massi che intorniava il residuo villaggio, gli abitanti ci confermavano la sussistenza dei mandir di cui non avevamo ancora traccia, la loro realtà ci era ancora del tutto incredibile, quando la loro apparizione si materializzava in una visione che mi lasciava stupefatto d’incanto. Laddove, stando alle immagini che ne avevo desunto in rete, mi aspettavo di vedere ergersi al più degli ammassi di rovine templari, a dispetto della natura incognita e remota del sito, sconosciuta ai più negli stessi dintorni, tra i massi prospicienti che digradavano verso un’ampia vallata nell’imminenza del Ken river, percorsa da mandrie di bufali al pascolo, cui succedeva il profilarsi ameno di ulteriori rilievi collinari, a perdita d'occhio, sovrastava i ponteggi di un cantiere la sopraelevazione in corso di un grandioso tempio gemellare, oltre il quale le celle porticate di altri due templi si offrivano alla vista. Delle coperture dei due sikkara sorgeva dal corpo del tempio il rudimento del pietrame interno, ad assimilarli a monchi altiforni.

 
Accedevamo al tempio da una rampa laterale della sua piattaforma e ci ritrovavamo nel mandapa della sala antecedente la cella di uno dei suoi due sanctum. Tale sala era interconnessa con quella, ad essa parallela, in cui un Nandi diruto /dirupato* sostava in adorazione interminabile al suo dio. La copertura della sala che dava adito al tempio era a guisa di volta, e la costituivano circoli di rilievi delicati, mentre era quadrangolare la copertura dell’atrio, o ardamandapa, del portico d'entrata che la precedeva, sostenuto da corti pilastri, ed affiancato da un identico ingresso ad esso parallelo,  per chi avesse risalito i gradini di quello che era l’accesso principale al loro sito gemino di culto.
I portali del garbagriha recavano stipiti ornamentali secondo moduli canonici, non fosse che il canopo delle divinità fluviali,  assecondate nelle loro flessuosità tribhanga da attendenti naga, sortiva nelle sue volute da kirtimukka leonini, e che un profilo di diamanti ne anticipava la profusione decorativa in pilastri e nelle pareti circostanti, in cui si infittivano in una decorazione puramente geometrica, insieme a reticoli di jali costituiti di quadrettature di dadi. Alle  estremità dei pilastri apparivano i tripudi di foglie di vasi dell'abbondanza, desunti dalla loro germinazione ancora fervidamente naturalistica nei templi Gupta, ma che le maestranze del tempio avevano stilizzato i in forme geometricamente assai più astratte, che preludono alla loro stampinatura lineare nei tempi Chandella di Khajuraho. Le sforature in oculi di cielo delle volte cadute delle sale di accesso alle celle di Shiva, propiziavano l’eccesso estatico del percorso del tempio.
Più a sud , digradante, era il Chausat Yogini mandir, all’incrocio di due transetti da cui vi risalivano al centro i quattro portici d’accesso, ove si situava il santuario principale, mentre le edicole riservate alle sessantaquattro Yogini, con tre forse in aggiunta, riservate come in Khajuraho alle divinità alleate delle Yogini. in esso albergate, erano disposte all'interno e all’esterno del deambulatorio che sulla piattaforma era intorno al santuario. Di rilievo il motivo nel basamento del portale d’ingresso alla cella della Dea, una kalasha, tra due volute, come ad esempio nel tempio Lalguan di Khajuraho, che era dedicato a Shiva ed è poco distante dal tempio delle 64 Yogini.


  



Già viene calando la fumosità diurna, quando dai templi lo sguardo torna ad allargarsi all’intera vallata, agli armenti che ancora vi sostano al pascolo, ai ragazzi che li accudiscono attenti,  agli abitanti del villaggio che lungo i tracciati dei suoi percorsi vi fanno ritorno, ed è già sera quando siamo di nuovo all’ingresso del villaggio, e Kailash intravede sulla nostra destra un altro tempio tra i campi, chiedo di fare una sosta e vi giungo da solo, tra i rovi non ne sopravvive che la cella, che reca sulla soglia lo stesso motivo ornamentale di quello d'accesso al sanctum del tempio delle Yogini.

 
Seguitavamo il rientro per la diversione di un sentiero di campagna, ove nel corso della stagione monsonica trattori e carri avevano lasciato i solchi di un rivolgimento talmente in profondo,  che sconquassava  il pulmino e le nostre viscere mettendoci  con  l'autoveicolo a dura prova, fintantoché non ne uscivamo a pochi chilometri da Chandla.

 
Senza più la luce del giorno e rare lampade accese, lasciava sgomenti l’attraversamento di Chandla lungo l’arteria stradale principale,  popolata di persone che avanzavano tra le tenebre di negozi affacciati nel buio di un continuo dissesto calamitoso, pulverulento e ininterrottamente sconnesso, senza che se ne potesse trarre respiro che una ventina di chilometri dopo, quando il fondo del percorso tornava a farsi un ammanto stradale fino a Khajuraho.

23 ottobre 2012

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