Odorico
Bergamaschi
LIRICHE
INDIANE ( 2012-2017)
ECLOGHE
INDIANE
DRAMATIS PERSONAE
L’amico indiano Kailash, Kallu
La moglie , Vimala
Il figlio maggiore Ajay ( 2000), ancora un ragazzino
La figlia Poorti, ( 2005), ancora una bambina
Il figlio Chandu ( 2009), un bambino
Il figlio Sumit ( 2007-2009), deceduto a due anni di età
Ashesh, il nipote, figlio di una sorella dell’amico
Mohammad, un giovinetto amico dell’IO petante
PRIMA ECLOGA INDIANA
Qui dove la
tigre che ti fronteggia
è il pupazzo di
stoffa di Chandu,
e nel dolce
lume il gioco e il canto
sono la
felicità di bimbi tra l’immondo,
che lieve
brezza ti riconduce,
trattiene i
tuoi giorni tra sibili e incanto,
prima che
cedano al sonno ed ai silenzi,
inquietati dai
ladri ,
della luna sui
terrazzi e gli orti di Sewagram,
cum complexa sui corpus
miserabile nati
lo stesso colpo
di tosse nell'ultimo nato
e già è il tremendo
del sereno
di cui i muri
sono assorti nei giorni,
tu vi schiudi
il cuore e le braccia
e quanta
delicatezza tenera
discopri nel
morso
mentre non hai
più altra vita, che questa,
che ti adempia
o ti smentisca per sempre,
deus nobis haec otia fecit
tra gli strilli
e il pianto o il crollo di schianto
dove il
villaggio riposa all’ombra dei nim,
nell’attesa del
rientro al tramonto
dalla giungla
di bufali ed ox,
quando di
febbraio è già estate
e la senape
ingiallisce i campi,
tutto si è consumato
nella tua remissività ad ogni oltraggio
da che cedendo
la gola per il taglio
potesti
lasciare il tormento delle aule
dove chi è
rimasto rimarrà ancora più a lungo
ed altrove, qui
in India,
eccoti di già
sulla via del ritorno
con l’amico sotto
le stesse fronde ospitali dell’himli,
in lontananza
sfumando i declivi
dove alle acque
del Ken discendono i boschi,
e le rive del
parco approdano ai giunchi ,
“Vedi, come il
fiume senza farne uso e ricevere offerte
dona la sua
acqua a pecore e cervi,
così l’albero
ci dà la sua ombra”,
sotto la quale
possiamo ancora indugiare
disvelandoci
che cosa sia tra noi paroupkar,
è nelle
vicinanze il tempio di Chattarbuja
che preannuncia
la nostra antica città,
poi conterà
solo andare avanti,
e sarà questo
il nostro canto più alto
SECONDA ECLOGA INDIANA
Brillano i pani
di sterco dei roghi di Holika
nella prima
luce del giorno sui muri e i terrazzi
la mangusta
riappare nei coltivi degli orti,
già si
schiudono le membra dai giacigli terreni,
con i lavacri
delle stoviglie
iniziano nei
cortili le abluzioni e gli spurghi,
“ India was
enslaved by the British”
la lezione che
ripete il fanciullo
prima di andare
a scuola,
ripetendola,
nell'India indipendente,
nella lingua
dei britannici che gli è ancora più d'obbligo, ora che è senior,
per non dovere
cinque rupie alle suore se usa l’hindi,
“India was poor and weak at that time”
ripete come se
i suoi stessi panni di ogni giorno
fossero ancora
quelli di quel paese debole e povero,
“ Every man will be thy friend
Whilst thou hast wherewith to spend”
quando il vero
amico "he stands by us
through thick and
thin,"
lo è nella
buona e nella cattiva sorte,
“Hello,
rupees…hello, pens…”
nel mercato
dove cerchi il coriandolo fresco
puoi ritrovare
più ancora il maldicente di turno
“L’amico, che
la fa da padrone sull’uscio del negozio,
spende tutto
nel bere e gli trema la mano,
nessuno vuole
lui come barbiere… "
ed ora chi mi
riscatterà questo corpo di morte,
al grano che già
si schiude al calore di marzo
se non, ancora
di più,
l’amore ch’è
vita e luce dell’anima ferita
tra le follie
di un docile cuore
lontanandoci
con l’amico
nelle valli
dove ancora risuona il canto di Krishna,
ed è il clamore
della pioggia di fiori e colori
che assorda il
dolore che invasa la mente,
la luna quel
tocco di sandalo
sul volto
vergine del cielo
mentre amore,
giocando il gioco della tigre,
sulla Yamuna
sei tu, Dio della morte,
fin che di
nuovo tra le forme d’incanto
cade la mente
con l’escremento,
ed accade il
distacco tra i cieli di Delhi,
non più, nella
lontananza, lo sguardo amante
ma con le
nuvole in disfacimento
tremulo liquido
l’acciaio nelle trame di vetro,
in arenarie e
cemento trasmutati i cortili e i terrazzi
cui nello sfolgorarvi
del giorno sei di ritorno,
di nuovo dove
chi ama non infinge soltanto,
e qualcosa
comunque succede.
“E’ troppo
povero l’inglese dei piccoli”
il verdetto
delle suore, per bocca dell’amico,
perché a loro
consenta in India un futuro.
Come pappagalli
li hanno addestrati
solo a ripetere
quello che non capiscono.
Provvederemo,
comunque, ripartiremo.
Li
abbevereremo, i piccoli, al nostro soccorso,
come tra i
campi, dalla riarsa giungla,
si abbeverano
gli armenti al Kuddhar,
aprendosi il
varco dove il fiume intesse le sue rive
delle canne che
ora graticciano l’avviato negozio.
E da queste
sponde anche voi a casa, ben pasciute capre
Ite domum saturae, venit
Hesperum, ite capellae .
TERZA ECLOGA INDIANA
“Oracolo del
Signore.
Quanto il cielo
si sopraeleva su tutta quanta la Terra,
cosi le mie vie
si sopraelevano
sulle vostre
vie,
e i miei
pensieri sui vostri pensieri”
Isaia
Tra le foglie
riarse dalla fersa
d’aprile si
fondevano desolazione ed ardore
dove di giorno
fulgevano i fiori di chheola,
il chiarore
delle messi circonfondendo nei pleniluni le traversate notturne/
che al padre
riconducevano il cuore dei piccoli tra le stregate mahùa,
sulle
biciclette, in fila indiana,
al di là dei
coltivi dove in cerca invano dell’acqua della Devi
si perse il
cammino delle donne con le giare di javari
Era la Domenica
delle Palme e del Natale di Rama,
e con che
amorosa violenza io ed il padre
incamminavamo i
bambini alla menzogna educativa, cui i giorni seguenti,
li
riallineavano in coro i testi scolastici,
“ Ministers, Politicians, Judges
Occupy their post because they studied hard “
poi lasciandoli
per che intorti tormenti come i nodi dei rami,
nella megacity dove la vita in dono depredata per strada
al cospetto
dell’amico si dilacererà in stanza ,
senza che altri
che il Dio nostro
possa anche di
questo perdonarmi,
“ma ora non
farti più del male, siamo tutti qui”
cantavano le
loro anime di nuovo ad accogliermi,
nel loro
sollievo che alfine il Monkey God
sia stato
placato dalla puja nel tempio,
Ora al distacco
del rientro
odora la
fragranza rigogliosa del basilico nel vaso,
pur nel dolore,
al poterli ancora lambire,
che ad ogni ora
che passi l’indomani si faranno
a cinquemila,
seimila,
settemila chilometri distanti,
nell’unità, che
ci sia di soccorso,
dell’invisibile
vivo più ancora tra noi.
QUARTA ECLOGA INDIANA
1
"Cosi dal
retro del suo tempio la Sibilla di Cuma
Cantava ambigue
parole tremende nell'eco dell'antro",
E dall'osteria
volgi all'uscita, sul retro,
che dà nel
cortile che fu la tua aia di casa,
ne ritrovi la
distesa deserta
più ancora
arida invasata dal sole,
trasalendo, sui
tuoi passi,
ai ragazzi di
corsa che vi sopraggiungono,
sono indiani,
del Punjab,
l'uno nell'attendamento al riparo dal sisma,
l'altro con la
madre accampato in giardino,
al tuo timido
approccio si scambiano un sorriso e già ti annientano,
la madre che ne
resta ignara in ombra
e ricambia
mesta il tuo namastè,
quanto si è
fatto breve, senza più grida animali
ogni spazio
retrostante di rustici ed orti,
spiantate le
vigne, dissodate
le cavedagne
d’un tempo
per il solo
rigoglio, a perdita d'occhio,
dei ranghi
infoltiti di steli di mais,
dove quante mie
anelanti corse,
quanti miei
sogni controvento,
scoloritesi con
le memorie porte e finestre,
rinserrata la casa ad ogni accesso ulteriore
,
tra i vasi
ascolti il silenzio nel refolo d'aria,
erano allora
gerani ed oleandri,
ed ora è il
conforto, con lo sgomento,
che tutto sia
cosi svanito e ammutolito,
lo sciame che
avverti
un sopito
tumulto di vergogna e lacrime,
inutile cercare
altri volti che quelli
che in osteria
già salutasti,
li ritrovasti,
già altrove,
nelle schiere
sparse delle loro lapidi ,
2
“ And the bird, did it fly away again?”
da Khajuraho, al telefono,,
chiede l’amico
del rondoncino che ponesti in salvo,
quando, al
rientro in città,
tu vuoi sapere
di Ashesh come ha preso il volo,
“Si, fu da un
campo aperto, qui di lontano,
per mano
di un uomo che ama gli animali
è un uccellino,
"the swift",
che se perde il
volo non si solleva più,
quell'uomo,
l’avessi visto,
l'ha baciato lieve, chiedendogli scusa,
prima di
spingerlo a viva forza in alto,
solo così, dopo
che è ridisceso un poco,
è volato via
libero nel cielo,
anche ciò di
cui si nutre, aerei insetti, lo cattura in volo,
rasenta l'acqua
quando la beve.”
“He will be bad student, He will lose his mind...
but what we can do...” ripete l'amico ,
che possiamo
più fare per il nipote Ashesh
se a involarlo
è stato il padre
e ricadrà
in un'ottava classe carpita con la corruzione,
(-senza che mai
mettesse piede nella sua aula
mille rupie si
tenne il maestro pubblico
in cambio della
bicicletta premio e della promozione certa -),
“ Ma non agitarti, keep quiet your mind,
se da Ashesh andrai domani”, /
“ I know, only if I
speak him sweet he speaks me true”
“ E ricordati,
che lui è come ti ho detto dell’uccellino:
se perde il volo non si solleva più “
revisione 2016-10-25
Quinta Elegia Indiana
(Omnia vincit
Amor: et nos cedamus Amori)
Per Chandu,
Kailash ed io,
che alcova di
amore
la cappotta del
ciclo-risciò sotto le piogge di Chhatarpur,
la delizia del caro bambino
il cuore giocoso
del nostro bene,
tracimi pure
l’immondo monsonico,
cali la
caligine più tetra tra gli scrosci a dirotto,
il riso di
Chandu qui è già una spera di sole
che precorre il
radiarne i campi smaglianti,
nelle sparse
pozze lutulente
la luce lustrando
l’ammusare dei bufali,
tra le foglie
sfagliantesi del sagoon
per
intenebrarsi già di nuovo
con quant'è la
disperazione del nostro Amore,
nel mio grembo
l'amico reclino
di che dolorosa
madre eviscerante,
troppo fragile
è il mio amore
per non
tribolarlo delle sue spine
quando mi vuole servo della sua inedia,
ma in chi altri
confidare
quando solo l
insano soccorre l insano
quando alla mia
follia di ritorno
l’amico schiude
l’adito a chi ha più caro,
con lui
ancora di nuovo dove il cuore infranto
incantava
Vishnu Ananta Shayana ,
l’ascesa a
Shiva Bhairava
dove il Dio vinse il tempo
e ne fu in gola
il veleno un urlo eterno,
alle rovine dei
templi di Ajaygarh invase dal sole,
di altri,
ancora più remoti ed ignoti,
alla scoperta
del loro abbandono fra i campi,
in che luce di
gioia, quand'è Dusshera,
dalla Dea
riattinta la vita per la Sua morte per acqua,
prima della
notte di che freddi fuochi celesti
sul crepitio di
lumi umani di che infelice Diwali,
reca la mia testa mozza Nirriti l'atroce,
e nessuna
frenesia di danza
può sventare il
rullio della sentenza,
nell'ingiuria
del dio hai maledetto i tuoi passi
ulteriori
tu che già
infestavi di sventura la casa,
l’abominio del tuo
passato
funestando il
nuovo inizio mancato,
eppure non cede
l'amico al veleno
che s'insinua
nello strazio mentale
“E perché mai
tu lo tieni ancora in casa
se resti ancora così povero,
e non hai fatto
tuo il suo denaro”
e credendo, e sperando,
si prosterna al
linga inesorabile
la fronte
segnata,
per Agnì cola lo sterco
fumante di ghee,
dedite al
passaggio
aureo di Laxmì
crepitano
ciotole di luce,
Nella notte,
ancora insonni,
chiedendo
lenimento
ed ancora
cedendo al Dio che è Amore.
revisione
2016-10-25
3
ottobre 2012
Sesta Ecloga Indiana
Cala l’ombra dei monti sui casolari fumanti,
di sterpi e sterco dai
bracieri esalanti,
s’annida la luna tra le mahua ritorte,
cede il sole la sua luce di sangue al fiume che scorre,
nella successione dei mesi che alla fine dell’anno
volge la notte dell'amico ch’è scosso dal pianto per la bufala
morta,
trovando il solo conforto
nel calore del corpo dei figli accanto nel sonno,
volgendola con la vigilia in cui nell’albero al limitare del
colle
vedevi il ramo a cui appenderti al sole,
al gelido odio della sua ingratitudine folle
e ora chi è stato ospite sverna già al Sud,
è in Irlanda che urla di
nuovo contro i ritrovati snackers,
radica nel Bangladesh la
coltura del neem,
in tutti con un curry speziato
infuso un nostro lascito di folli speranze,
quando, di ritorno furtivo
è stato solo ieri che ci
ha già lasciato l’uccelletto Ashesh,
senza che a trattenerlo nulla sia valso
dell’incanto nel parco,
dell' appostarci alla vista di antilopi e cervi,
o del viaggio, di piccoli uomini,
per le forniture del negozio e la riscossione dei crediti
intrapreso con Ajay al villaggio dei nonni,
seguitando, tra le nebbie,
la crescita dei germogli infestati di grano,
ogni fumido mattino
l’amico infreddolendosi all’arrivo dei treni
per intercettare nel flusso l’occasionale cliente,,
Vimala, l’infinitesima volta,
a risospingere il riflusso nel cortile,
prima che i bambini
pettinati e rilavati
si riavviino a scuola in tuc tuc,
Ma pur se il viride miglio delle suore ne ravviva la grotta,
pur ora che l’anno finisce felice
è la nostra mangiatoia il pagliericcio di un morto bambino
nel cui astringerci crepita il fuoco.
Settima Egloga indiana frammenti sparsi
E quando le opere parevano morte,
inutile ogni sforzo intentato,
che solo restasse a protrarsi la resa,
un nuovo splendore illumina i giorni,
la vacca tra la pula che lecca il vitello,
la senape nei campi che germoglia col grano,
e la sera non è tenebra
di sventura
quando dai colli cala sui fumi sospesi dei fuochi,
velami dell’aria che imbruna
le aie e i coltivi,
nell’ora che protese di slancio
oscura le campanule tra i fili ritorti,
il trascorrere più
imperturbato dell’acqua del fiume,
nel volgere a un nuovo mattino che agli armenti, che pascolano lenti,
è di luce anche
nell’ombra,
e di conforto
è (pure) il tugurio di stracci ed infissi della prole di guardia
,
solo l’ incanto
benedicesse anche i letamai di maiali e
bambini,
solo il canto degli uccelli sovrastasse
il pigolio degli “hello, rupees”
dei piccoli
come esci per i campi,
e tu potessi confidare di
quanto sia stato il dolore dei giorni
che di che fu intraveduto nulla potrà più andare perduto,
e sia l’amore più forte
che la nostra paura del male,
e sia l’amore più forte che la nostra paura del rischio,
prima che tutto s intorbidi ancora nel gorgo,
e l’amarezza sia il flutto di quanto è trascorso,
ma come Vimala lascia le coltri
che dolce tepore
prenderne il posto accanto al mio Chàndu,
infinitamente
delicatamente accarezzarlo nel sonno,
presagendo nella fitta che il dono di grazia
sia il sopravvivere anche alla sua perdita,
mentre lente le nuvole gonfiano l’arco dei cieli
altro di tremendo e risorto ancora ci attende
( gennaio febbraio2013 ( 18 marzo 2013
Revisione 2016-10-25 2017 15 gennaio
OTTAVA ECLOGA
INDIANA
Come potei, già
una volta,
levare su di te
la mano,
serrarti la
gola,
dirti di
volerti morto, anima mia,
quando tu sei
la mia vita e l’amor mio,
e così di
lontano
non so pensarti
che con viscere trepide
al tuo
impigliarti ogni giorno nell’afflizione che stride,
mi strazia il
tuo Karma
di una tua vita senza scampo,
più che mai ora
(che con il tuo nuovo autorickshaw, alla sua guida sicura,)
che hai la
dignità di un lavoro che non ti dà guadagno,
“Whats’ news? It’s raining, raining, raining,
only raining..”
mi ripeti
allora al mio ripetermi,
“ In Khajuraho everyday are the same things,
the same market, the same business with the tourists,…
“You know, lo sai,
(that ) they don’t respect me, if I speak true,
paying many
money to the lapkas,
-a chi li accalappia -
and seeing nothing, nothing of the temples ..”
finché, radura
di luce,
trovi un po' di
contento nel nuovo tran tran
“ I lose fuel, time, going every day slowly to the
railway station
but I safe my life, my autoricksaw”
“And Chandu, my love?”
“He’ s asking you cycle,..”
“ Cycle!”, come
mi grida la sua voce al telefono,
prima già di
non volerne più sapere
di me che sono
il suo babbà che non fa ritorno,
alla terra dove
straniero
oramai avrei
ucciso un uomo per una scalfittura,
un ragazzo per
un mio livido,
Ma che solo
risenta la tua voce accorata, amico mio,
e quanta vita
ritrovo nella tua di stenti,
ed allora tu
parlami ancora
di come al
sesamo si apre la bocca che schiude il seme
nel tuo timore
che si perda nel fango se la pioggia continua,
di come la luce
si è spenta di nuovo sulle tue parole,
sulla tua cena
di solo mango pickle e un pò di chappati,
ch'io approdi
ancora ai tuoi recessi d'amore
quando sento
nei tuoi accenti inumidirsi la lingua
della tua
bufala che lecca il suo nuovo Lalosha,
e lenisce lo
sbadiglio la tua ruvidità di modi,
” For other things we’ ll speak more tomorrow,
“See you soon, Kallu, “
“See you soon”.
Revisione
2016-10-25
NONA ECLOGA INDIANA (
frammenti)
Sulle rive del
Brahmaputra,
in un gothul,
in quale India
mai
sprofondare in
un sogno,
dove non sia
più tra una fangosa gente
che sopraggiunga
chi vagheggia l’apsara, nel torcersi,
che sembra usi
a scrivere un pennello,
e intenta pur ella al bello gli rammemori
che vivere bene
è più che scrivere meglio.
Come dei templi
i sovrastanti picchi
ed è un’ascesa,
un precipizio, una rinnovata ascesa,
delle vertigini
a soccorrersi
delle nostre
menti folli,
di ritorno al
loro conforto di voci
dall'impeto del
Gange alla schiusa dei monti,
non una delle
aarti,
intrepidi lumi,
superstite al
varco dei flutti,
alla loro fede
nella mia luce del cuore
sentendo che
l'amarli sino alla fine
è ciò che mi
resta di cui sono ancora capace.
novembre dicembre 2014
DECIMA ECLOGA INDIANA
1
Ora ogni
mattina, a che sento ,
solo se è il
papà che guida il tuk tuk
va Chandu con
il farfallino alla scuola delle suore,
di Ajay la voce
nuova,
Poorti più di
casa,
Vimala che
scalpita, sbraita, si rifiuta,
no capendo che
da allora è l’amore,
non il sesso
che Kailash vuole,
“ nel nostro
letto comune furono i miei piedi, non Io,
che fecero
l’errore di scalciarla “,
lo so, amico
mio,
è lo stesso
anche per me,
da quel tuo grido
che mi infranse
“ Oh, my Sumit,
no more life!”
Qui captandovi nella mia lontananza
dove il
continuo deprivarmi è il mio servizio d’amore,
“ Lo so, ma che
almeno comperi per i bimbi
bengali per
Diwali"
l’amico
ignorando che il sacrificio estremo,
nell'esitazione
che fa differire l’emissione del ticket ,
è trovare in
loro la misura,
l'irrevocabile
che adempie
2
Ed ora,
ricongiunti ,
che già è festa
di Natale,
Oh, la loro
vita in mia balia…
Vimala Maria
che rimugina un suo canto
Chandu con voce
inesausta di stupore giocoso
nel nuovo
giorno restandole accanto ,
allorche Porti
sopraggiunge festante ed è già via,
Ajay (già) da
tempo chissà dove,
Kailash
involatosi al lavoro (già) di primo mattino,
il vimine di
Vimala che intanto riasciuga il cortile, l’acciottolio del vasellame,
di fuori la
nebbia tra i templi inumidendo le soglie,
la povertà
involta in cenci e coperte,
“Mottaa!..
mottaa! “, com'è di ritorno,
il motteggio di
Chandu per la mia pinguedine,
la marcescenza
dei cuori in rabidi furori
consuntasi tra
la cartapesta
dei dì di festa
di Shiva,
alfine,alla
sera che cala,
presso il fuoco
che divampa, intorno a un braciere,
l'ardore
d'amore dei resti umani raccolti .
Natale 2014
revisione
2016-10-25 2017/ 1/14
CANTICO DI
SIMEONE, PARAFRASI
Signore, anche
se la nebbia cede al sole che intiepidisce le membra,
e la fiamma
divampa a riscaldarle nel fuoco notturno,
vaneggia la mia
mente
qui ove la
pietra di Shiva è il nudo interesse del calcolo,
le mie
ginocchia si spezzano ad ogni gradino,
oh, come
andato, andato, all'altra Tua sponda,
oltrepassato
del tutto
e qui
rimasto...
(om gate, gate,
paragate,
parasamgate
bodhi svaha...)
ma pure così,
finché duri questo oggi,
Tu fammi pur
essere per essi fino al mio mancamento,
e se nel seme
di chi ne è il seme
quand'io entri
nel Tuo riposo, alle loro età sopraggiunte
saranno essi
ancora senza sostentamento
provvedi per
altra mano al loro futuro,
ai loro giorni
del dolore
scongiurando l’ora
di nuovo della morte del figlio,
tra le
luminarie intanto della desolazione
com'è dolce il
ciotolio di Vimala,
la confidenza
tra me e Kailash, dei nostri bambini nelle loro scuole,
tale Tua luce
di lacrime tra le apprensioni assillanti,
per chi non
trova più la Tua Parola che nel disgelo d'amore
LUNEDÌ 29 DICEMBRE 2014
Revisione
2016-10-25 2017 / 1/14
QUI CANTA UN ASSOLO L’ESTATE
Qui
l’estate canta un assolo
che non incanta i sensi morenti,
trasuda, in
svago e piacere, una replica che non dilacera strappi,
le voci sociali, se le ascolti,
salmodiando dei derelitti dei mari
quale sia il gusto dei pesci che se ne
nutricano,
eppure non c’e vita che anche qui non vada
parlando,
gridando, piangendo d’amore,
di cui tremi a che puoi fare ritorno,
se tra la linfa
di volute di foglie, l’imbeccarsi d’uccelli in cui si è mutata la pietra
non soccorre il
cuore che sia più
che di carne e
di sangue,
voi ancora, mie
vive e morte anime amate,
vita, nascita e morte,
in voi ancora
perpetuandomi il ciclo,
la pioggia, stillandomi fresca,
all' inumidita soglia che Shiva sorveglia
Ecloga indiana XI
“You 're like a bàrgad”, “
mi dice non so
perché Mohammad,
in riva al
talab,
tra un seguito
e l’altro,
con la Laila di
cui è Majdun
dei capitoli
del libro dell’amore che mi sta compitando
alla stregua di
quelli del Piccolo Principe che viene leggendo,
il primo
che recita che l’amore è vita,
il secondo che
è cieco,
il terzo quanto
è pericoloso,
il quarto che è
follia,
il quinto che è
solitudine e richiede lontananza, se è speciale,
il sesto, che è
indimenticabile,
il settimo com'
è incredibile..."
“ E perché son'
io un banyan?”,
gli chiedo
schermendomi
con
inquietudine curiosa,
per la natura
epifita dell’albero,
che a impresa
del Raj,
fin esso a
farsi gigantesco splendore
nel suo germe
cresce strangolando
la pianta che
l’ospita,
(madide le mie
tempie di inebriato elefante,
di ritorno a
lui ora da un'apsara
in una smorfia
di noia,
ad un nudo Nirriti
accanto della mia morta sorte)
“ Perché come
un banyan con la sua chioma
tu copri e
proteggi la vita di noi tutti”,
con quali mai
aeree radici protendendomi al suolo,
quando del
fratello del mio cuore,
per lui l
“uncle”,
cuius amor, di
cui l’amore si deposita al fondo, così tanto,
devo farmi il
guaritore ferito già ad infettarlo,
oh, l’eccedenza
stessa da lui allora elargitaci
l’acqua più
amara dell’offerta della sua gelosia,
quand’io già
m’illudevo, ad un incanto dei miei anni finali,
che Mohammad
fosse la delizia di noi tutti.
“Così ora
eccomi Babbà Bargad”
scherzo e rido
con il ragazzo,
(attardato
fenicottero nella regione del vento,
con lui
consumandomi nel trascorrere del tempo),
mentre nel sole
che traluce al tramonto lo specchio delle acque
m’intriga quando
sia la volpe che ama il Chota Raja Kumari
che al mio
Piccolo Principe riveli il seguito che riserva amare una rosa
ALTRE POESIE INDIANE
Siccità indiana,
Sotto un cielo
che affosca ogni orizzonte,
di una luce che
calcina i campi riarsi,
ch’essica il
canto e lo squarcio di gole distanti,
che mai ancora,
al limitare,
trascina lo
zoccolo in ceppi
a pasture di
stoppie,
il tuo farti l’
ombra di strade deserte,
ed ancor oltre
l' insano tumulto,
eppure ci
avvince di ogni loro strappo
a ricucire
insieme i nostri sudari?
Tra i morti
ancora per acqua, che mai
di cui ancora
trilla l’usignolo meccanico,
è inesausto il
gioco , il richiamo al telefono,
il desiderio è
madido d’amore
Quando le tue pagine
fossero pure fogli di una Gerusalemme celeste
Quando le tue
pagine fossero pure fogli di una Gerusalemme celeste
In accenti che
menti eterne compulsino
Lungo l intero
volto di gloria, sfigurato ammasso,
E’ uno sfregio
che vi griderebbe per essere espresso
In un urlo che
non trova voce che sia decente
Di una
capitolazione continua per amore.
Snodato il
capestro in una disfatta dopo l altra.
Ti sai solo un
servo di infinita ignominia, e tanto ti basta,
Se così tu hai
salvato l infanzia dei piccoli.
Cali pure il
silenzio la mannaia d’oblio,
La loro voce in
cortile felice
E’ la tua
musica divina
MERCOLEDÌ 22 GIUGNO 2016
E’
di voi ch’io ho fame e sete, miei esseri diletti,
E’ di voi ch’io
ho fame e sete, miei esseri diletti,
che mi
accudite, di me lacrimate,
mi richiamate o
vociate nel gioco,
siate il
bambino Chandu, il giovinetto Mohammad,
Vimala
nell’umido silente dei lavori domestici,
Kailash e le
sue turbe od Ajay, involato dal cricket,
Poorti ancora
una volta riportata via
da svago o
timore di che in casa
può funestarla
di nuovo
E già piange le
vostre
concomitanze
nel sonno
il mio ritorno
nei solitari miei affanni notturni,
da ogni
abbraccio o carezza o tormentio di capelli
ad un’ infinità
di leghe rigettato distante,
solo con me
stesso e la mia morte davanti,
ed allora
Mohammad che spunta dagli alberi,
Chandu che si
fa dolce dolce per dieci rupie,
Kailash che
ricambia la buona notte con il gesto alfine di una mano fraterna,
il box del
lascito quotidiano, l’indomani mattina,
di nuovo da lui
evacuato con mia contentezza,
dal Lete
saranno le vostre care memorie da distogliere in salvo,
per il fango e
la furia ancora
di ritrovarmi
con voi.
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Credi nel raggio di sole
che rischiara il cortile
Credi nel raggio di sole che rischiara il cortile,
riaccogli la realtà di stoviglie e otri da lavarvi di nuovo,
non desolare dei tuoi pensieri neri le vuote stanze, il giaciglio disfatto,
trangugia con l’acqua il cibo di nuovo,
è stata solo un’ altra nuvola di passaggio il tradimento di intenti
che con la tua vita tutto avrebbe spezzato,
conferma che sei vivo di scopi chi nulla sospetta,
e già ha ripreso ciò che frutto non dà,
si rianima la casa di vita e di voci,
che non vi manchi il tuo silenzio al lavoro,
il tuo saluto gioioso del rientro da scuola..
Credi nel raggio di sole che rischiara il cortile,
riaccogli la realtà di stoviglie e otri da lavarvi di nuovo,
non desolare dei tuoi pensieri neri le vuote stanze, il giaciglio disfatto,
trangugia con l’acqua il cibo di nuovo,
è stata solo un’ altra nuvola di passaggio il tradimento di intenti
che con la tua vita tutto avrebbe spezzato,
conferma che sei vivo di scopi chi nulla sospetta,
e già ha ripreso ciò che frutto non dà,
si rianima la casa di vita e di voci,
che non vi manchi il tuo silenzio al lavoro,
il tuo saluto gioioso del rientro da scuola..
GIOVEDÌ 1 SETTEMBRE 2016
L'acqua che nella gola gorgoglia
L’acqua che
nella gola gorgoglia,
la brezza che ti alita del ventilatore in stanza,
sono gli appigli di vita nella frana di schianto,
ora che sai che non sapranno mai farsi libro le tue parole,
che ogni tuo intento è votato a fallimento e miseria
in cui si fa penuria di vita l'orizzonte restante
.
Lo splendore del giorno è intanto il respiro
di tutto ciò che sei ancora
perchè quanto più, ora a soffocarti,
è la fedeltà ai destini in dono cui ti sei avvinto
la sua grazia ti confermi un uomo nelle tue macerie,
e nel risciacquo dell’oltraggio e delle stesse stoviglie,
nella riapertura delle serrande di merci invendute
l’addio sia un nuovo ritorno
Alla furia e cecità della stessa polvere
all'impotenza nel grido di una stessa preghiera.
la brezza che ti alita del ventilatore in stanza,
sono gli appigli di vita nella frana di schianto,
ora che sai che non sapranno mai farsi libro le tue parole,
che ogni tuo intento è votato a fallimento e miseria
in cui si fa penuria di vita l'orizzonte restante
.
Lo splendore del giorno è intanto il respiro
di tutto ciò che sei ancora
perchè quanto più, ora a soffocarti,
è la fedeltà ai destini in dono cui ti sei avvinto
la sua grazia ti confermi un uomo nelle tue macerie,
e nel risciacquo dell’oltraggio e delle stesse stoviglie,
nella riapertura delle serrande di merci invendute
l’addio sia un nuovo ritorno
Alla furia e cecità della stessa polvere
all'impotenza nel grido di una stessa preghiera.
GIOVEDÌ 8 SETTEMBRE 2016
Sia la voce un canto di vita nell’accalappiarla la morte,
Sia la voce un canto di vita nell’accalappiarla la morte,
all’acqua che trascorre scintillante,
al verde che vi si rispecchia,
lungo l inoltrarsi delle identiche vie
alla farfalla inebriata nel sole,
veleggiano ancora orizzonti gli squarci di nubi,
se appressa le amate presenze
sa ripromettere
il tatto dell’anima
ciò che non sente la mente nel cuore,
e procedono ancora i passi per infranti cammini,
in sguardi d’altri ed agi animali
ciò che non sente la mente nel cuore,
e procedono ancora i passi per infranti cammini,
in sguardi d’altri ed agi animali
nelle radure e
nel folto ove ancora sia luce.
SABATO 10 SETTEMBRE 2016
Ed ora, amico mio
Ed ora, amico
mio,
Che qui
invecchio solitario e nel freddo
Tra cumuli intorno di parole nei libri
Senza più la
certezza di ricongiungerci un giorno,
Dove di nuovo come la sera cala su giochi ed attese
Il gelo del tuo
attaccamento ìncubi
che gelosa
follia
Il residuo
calore che avventura ancora i miei anni
Oltre l’attendere qui solo la morte nel passare dei giorni
Ora è che amore
di te crepito, mio caro,
Per quanto so
che sei perduto se non ti sostengo
Per quanto tu
in me confidi
Benché di me tutto tu sappia.
Mentre senza di
te qui il mio dolore è tale e tanto
Che la gabbia
di stenti è il suo imprigionarsi,
Che disperando
di ritrovarci
La mia veglia
cerca solo l’addormentarsi. e il morire
Nel sogno di
te.
Dio mio, Padre mio, ( DODICESIMA
ECLOGA INDIANA)
Dio mio, Padre
mio,
delle mie
contrite ossa in così tanto freddo,
tutta la mia
anima si gioca in questa mia lettera,
la mia vita in
ogni suo rigo che ha appena inteso l'amico,
sta tutta la
Tua sola parola che non mi sia lettera morta
nell'attenzione
dell'amore che ne detta
una revisione
ulteriore,
nell'evocarti
onde evitare , “Veni creator spiritus”,
l'errore minimo
che sia fatale al nostro ricongiungimento.
Sia esso una
visita, non un risiedere,
un soccorso,
non un sostegno continuo,
siano al più
gente indiana cui sei dedito
coloro per cui
ti fai povero ad ogni evenienza.
tu non sei il
Babbà del tuo Chandu
la cui assenza
strazia ogni tuo istante al solo ricordo,
in tanto
dolore, di una separazione irrisolta,
che nel sale di
una vita che ti prova e ti tempra
ti riesumi che
restano il Suo incantevole dono di luce e di grazia,
e ti ridistilli
ogni meraviglia dell'India
nell' indurirsi
a diaspro del tuo amore,
l'incanto, che
quando là v'eri,
il suo tremendo
ti soffocava in un nodo a cui appenderti in stanza,
finché non
chiuda la richiesta
ciò che non può
non erompere da ogni vincolo posto
“Sir, instead of the employment visa now I ask another
kind of visa in the last resort
because in India there is my life, the
treasure of my mind and of my hearth”.
Tra le nebbie in cui esala
il mio fiato
Tra le nebbie
in cui esala il mio fiato
Anche dal
pentolino che qui ebolle
Vedo levarsi
quel fil di fumo,
Ed io sempre
più mi sento
Una Cio- Cio-
San votata al suo harakiri
Si nega il
console all’appello,
Si nega al
telefono anche il mio piccolo Iddio,
Incolleritosi
nella ricerca in lacrime
Di un perduto
bottone,
E l’amico che
intenta ? di che gli è possibile
Perch'io possa
almeno rivederli in videochiamata,
Di che può
sedarmi uno strazio, irriso,
Che non trova
più appigli
Alla chiamata
del vuoto.
Quel poco, nella mia casa
morta,
Quel poco,
nella mia casa morta,
che smuovo od
uso a stento, ad ogni ora che passa,
vi ristà perché
al presente, come fosse ancor vero,
tutto sia
pronto per una partenza che a loro ritorni,
lasciando le
valigie non ancora disfatte
con ancora
dentro che riportarvi,
niente ancora
da farsi
cui allora mi
tocchi mettere mano,
quando, come
non sarà mai più,
mi sfinisca nel
poter chiudere alle spalle infine ogni porta
per andarli a
raggiungere da questa solitudine immensa,
mentre non
lasciando così indietro niente che di sudicio avanzi
quel che
appronti, lo sai,
che è un addio
che non sarà per quei cieli.
Mio
Signore,
Mio Signore,
fa che questo sia il mio ultimo giorno,
la mia ultima ora,
il mio ultimo battito,
la mente non vede più oltre che angosce di stenti,
nel seguito degli eventi che l'avvento di belve,
il mio lascito è solo vanità di sforzi,
trema, alla sua aperta voragine,
lo spendermi in perdita per il misero amico,
soffoco, mio Dio,
non vedo più luce nello splendore dei giorni,
tacito di tutto
tra ogni altro in chiarità di sguardo
DOMENICA
8 GENNAIO 2017
Pietà di me, mio Dio
Pietà di me, Mio Dio,
della troppa mia delicatezza prima di giungere a morte,
dona la Tua pace
ai miei giorni che strema il Tuo giogo,
ne intendono solo spasimi e stenti,
il farne del mio futuro un tremito misero,
ravvivati o fuoco d'amore
ora e nell'ora di ogni nostra morte