domenica 21 giugno 2009

Perchè non parlo della mia vita presente di insegnante.

Adrian il mio allievo rumeno, uno dei miei pochi allievi reali, al termine di uno degli ultimi giorni di quest 'anno scolastico mi ha chiesto perchè nei miei blog non scrivo della mia vita che vivo ogni giorno dove abito e insegno.
Ho rinviato una risposta a quando avessi trovato il tempo di scriverne. Ora provandoci, sento di dovergli dire queste mie verità.
Per quanto per me sia un bene vivere ogni istante presente nella sua pienezza reale, io qui sento di vivere in un paese irreale di gente irreale, in cui faccio cose irreali di cui è irreale anche la soddisfazione o la sofferenza che mi causano, sento di insegnare senza che l'insegnamento abbia più un altro senso che di consentirmi di vivere, di vivere una vita ove l importante, per me, è ciò verso cui senza pervenirvi mi trascino invano ogni giorno .
Ciò che per me è empre stato l' importante, e a cui anelo ancora ogni istante, è dare testimonianza, nella parola e negli atti, di ciò che si rivela essere il bene, il bello e il vero nell'amore e nell'arte, nelle Sapienze religiose e nel pensiero filosofico e scientifico, tramite la mia mente, l'ingegno ed il cuore che ne fanno esperienza e li verificano nei rapporti con gli uomini e le loro culture.
. Che cosa di più ideale, dunque, per vivere dell'amore e dell'arte , che esercitarle e spendermi per esse gratuitamente, e trarre il frutto del mio sostentamento dall' insegnamento di ciò che di Dio in me più rifulge, in forma di intelligenza sensibile?
Ma la scuola mi ha distrutto la mente e l ingegno, per sopravvivervi mi sono suicidato nel mio spirito artistico e nella stranezza dei suoi malinconici furori , poichè in cattedra la vulnerabilità dell mia anima nella sua diversità umana, in ciò che ha di più bello e più alto, la mia stessa mentalità critica e i timori dei suoi scrupoli accorti, il mio genio divino , mi hanno esposto a ogni sorta di crudeltà e di dileggio, a subire ogni specie di attacco da chi più è estraneo a tali idealità, senza che per la mia stessa vulnerabilità fossi credibile o difendibile come uomo per le autorità scolastiche: un intoccabile e un indifendibile al tempo stesso , sottoposto a ogni malvagità del branco, senza che i migliori delle classi se ne distanziassero per essermi d'aiuto, e( senza )che (nella) la maggior parte degli insegnanti, dei miei superiori, non assumessero la stessa difesa dalla mia intelligenza sensibile discriminandola, brutalizzandola spregiativamente, non volendosene minmamente avvalere.
La misura umana delle cose, per cui ero scandalo, mi ha trasformato in un fuori casta, un intoccabile dovunque.
Nel frattempo sempre più è retrocessa la linea di ogni insegnamento possibile, di ciò che posso comunicare e richiedere, di quanto di magnifico, al computer o tramite i libri mi è dato di ideare senza doverne affrontare o subire lo svilimento e il degrado, la vanificazione mortificante nel disinteresse e nel chiasso, -e mentre sempre più i tempi ne hanno favorito la possibilità, ogni tentativo di una fecondazione reciproca di esperienze e di culture è diventata un campo minato.
In certe classi è stata tagliata ogni linea di contatto con la mia persona e la sua natura, mi sono sentito come se fossi un ebreo nella Germania nazista .
Così la estraniazione è diventata reciproca, irreversibilmente, tra me ed i miei discenti, tanto più da quando è avvenuta la mutazione antropologica del popolo in cui vivo, che ne ha prodotto la presente miseria morale.
Degli allievi che in sempre più classi ogni anno diverse le une dalle altre mi si affollano davanti, oramai sempre di meno mi interessa il destino mentale e dell'anima, essi si confondono in una moltitudine sempre più anonima della mia mente, dove restano per me memorabili solo coloro che più di ogni altro mi hanno inferto del male...

Il peggio mi accade, in tale stato delle cose, quando tale misura umana si fa la mia stessa misura di giudizio, mia implicita auto condanna , in termini di successo e fallimento, di dignità e rispettabilità, allora Dio non è più in me, nulla può più difendermi, e sono avviato al supplizio dei miei aguzzini, al discredito e all' umiliazione dei superiori e della gente comune, di cui per primo condivido il disprezzo e la ferocia che mi riservano, nella mia intima mancanza di rispetto per me stesso, quanto più alzo la voce e mi esagito.
Ogni giorno di scuola debbo allora addentrarmi nelle aule con la fermezza della pecora che va al macello, esposto alla violenza cui mi sottopone l'accettazione del giudizio altrui di condanna.
e mi tocca rientrare a casa piagato e ferito da tutto quanto ho subito, esaurendo le mie forze mentali ,fino a che non chiudo gli occhi, nel suturare e cicatrizzare l'insanabile.
Quando poi sento ancora la necessità di esprimermi artisticamente, non so dare allora valore al mio sforzo e al mio sacrificio scolastico, considero la mia sofferenza solo una penosa conseguenza della mia inettitudine e della mia inadeguatezza di insegnante, da nascondere agli sguardi umani nelle pieghe della vergogna, a fronte di chi invece " sa farsi valere e rispettare", ha la autorevolezza della persona adulta che mi manca affatto, e sa come imporre il silenzio e la disciplina in classe, cosicchè la mia vita scolastica assume per me la stessa insignificanza e irrilevanza che hanno la scuola e della cultura stessa nella nostra società, e nel mio insegnamento sento di dovere solo limitare/ contenere la perdita della mia esistenza nell inutile dispendio del talento che mi è stato donato, senza nemmeno il conforto di potermi dire che ignoro al presente i frutti che la semina che ho sparso nelle classi darà in futuro, della massima evangelica che chi ha perduto la sua vita l'avrà così salvata.
O quando mi elevo a una più placata consapevolezza , vedo nel mio insegnamento solo gli errori mentali da cui debbo distaccarmi nell'atto stesso di essere presente a ciò che succede in classe, l'orrore continuo, da anestetizzare affettivamente, lungo ed ininterrotto quanto il mio insegnamento scolastico, in cui è andata perduta (si è volatilizzata e vanificata )la mia intera esistenza, nel distaccarmi dal cui riprodursi (dovrò volatilizzare e) vanificare anche i miei anni futuri, farli inesistere e venir meno finchè insegnerò.
E quando avrò finito di insegnare, e l'atrocità sarà finita, con il tempo tutto se ne sarà già quasi andato di me stesso.
L India a cui torno, Adrian, è invece la realtà di cui parlo sempre nei miei scritti, perché il seme forse non vi è caduto sulla strada e tra i rovi, è la terra in cui è forse germinato nell' amore del mio amico, dei suoi bambini di cui sono il " Baba", il nonno lontano che ogni estate ritorna, e dove mi riconduce la speranza, a dispetto di ogni più bella canzone triste, di potere chiudere i miei occhi nella gioia che con il tempo tutto non finirà.


Vedi Vimala Takar, pg
Il Mistero del silenzio



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