sabato 25 gennaio 2020


ODORICO BERGAMASCHI

LA CRITICA DELLA MODERNITÀ
CAPITALISTICO-BORGHESE
IN MARX, GRAMSCI, NIETZSCHE



Odorico Bergamaschi
La critica della modernità capitalistico-borghese
in Marx, Gramsci e Nietzsche
Mantova 2019

A Baldino

SOMMARIO
SOMMARIO 5
PREMESSA 8
LA CRITICA DELLA MODERNITÀ CAPITALISTICA 9
NEL PENSIERO DI GRAMSCI E DI MARX 9
LA CRITICA DEL MODERNO E LA CRISI NICHILISTICA DELLA CULTURA IN NIETZSCHE 27
NOTA 42
1) LA RELIGIONE DI CRISTO 43
2) PER UNA PSICOCRITICA DI NIETZSCHE 47
PAGINE REMOTE 50
BIBLIOGRAFIA MINIMA 57
L’AUTORE 59
COPYRIGHTS 61




PREMESSA

Questi due miei scritti brevi risalgono alla fine degli anni settanta e ai primi anni ottanta, si collocano a ridosso della mia tesi di laurea su Superstizione, Etica, Filosofia e Politica nel Pensiero di Spinoza e sono di transizione dalla mia formazione basata sull’ esperienza della verità eminentemente filosofica e politica a quella letteraria ed impolitica.
Nel proporli a distanza di quasi quarant’anni intendo rimarcare tutta la distanza che separa il pensiero di Marx e di Nietszche dalle tradizioni teorico-politiche che sono invalse nei loro confronti, senza per questo immunizzare l’ uno e l’altro dal totalitarismo o dalla gerarchismo razziale che vi si può rinvenire .
L’uno resta un baluardo teorico inespugnabile da ogni movimento di critica romantica, antitecnologica e antiscientifica del capitalismo, di ogni ritorno alla naturalezza delle origini, Nietzsche testimonia la de flagranza di ogni sistematicità filosofica dell’umano, troppo umano, che riflette su se stesso.
Fa seguito ai due saggi un estratto letterario delle pagine pubblicabili che ha scritto su di me un mio amico di allora, e di sempre, in cui rivive tutto il fervore di quei tempi.
In quelle pagine io sono Oscar
Odorico Bergamaschi Mantova, 5 dicembre 2019

LA CRITICA DELLA MODERNITÀ CAPITALISTICA
NEL PENSIERO DI GRAMSCI E DI MARX






Uno degli aspetti salienti che caratterizzano il mondo contemporaneo capitalistico del suo tempo è per Gramsci l’emergenza di un nuovo conformismo collettivo: “ la standardizzazione del modo di pensare e di operare assume estensioni nazionali e addirittura continentali. La base economica dell‘uomo collettivo. Grandi fabbriche, taylorizzazione, razionalizzazione, ecc.” . La differenza specifica rispetto all’uomo collettivo del passato dell’ uomo collettivo odierno è che si forma essenzialmente dal basso verso l’alto, sui fondamenti della posizione occupata dalla collettività nel mondo della produzione. La formazione di una volontà collettiva non avviene più per impulso di un uomo rappresentativo, come nelle forme della direzione carismatica, “ tanto che esso può sparire senza che il cemento collettivo si disfaccia e la costruzione crolli”.
“ Il conformismo è sempre esistito; si tratta oggi di una lotta tra “due conformismi” cioè di una lotta di egemonia, di una crisi della società civile. Ecco il punto nodale: all’interno di questa tendenza al conformismo si delinea uno scontro di civiltà ed il terreno decisivo di questo “scontro di egemonie” + la società civile”
“ Il tramonto di un modo di vivere e di pensare non può verificarsi senza crisi” ed essa è “ crisi della società civile”
La nozione di società civile come luogo ove si forma la volontà politica sulla base della società economica, che ne è l’anatomia, e quindi come luogo complessivo della legittimazione dei rapporti di produzione e di espressione della loro crisi in relazione alle esigenze di sviluppo delle forze produttive e dell’emergere fattuale di una nuova volontà collettiva che in essa si organizza ( politicamente) sia fondante per più versi .
E’ una nozione decisiva per la scienza della politica , più specificamente per il concetto di Stato e di Diritto, ed è perciò un termine flessibile usato con accentuazioni diverse a seconda del problema specifico trattato, per tali ragioni è nell’uso di questa nozione che si può trovare il punto di connessione tra scienza della politica – quale teoria dell’egemonia- concezione dello Stato e del diritto. Essa acquista nella progressione dei quaderni una predominanza crescente rispetto ad altri concetti ed è il concetto-forza sul quale Gramsci fonda la sua riproposizione comunista della estinzione dello stato. E’la dinamicità della società civile che determina quella relazionalità tra società civile-società politica – società regolata, per la quale Gramsci pensa lo Stato come equilibrio instabile basato sui rapporti di forza. Proprio su tale criterio delle relazionalità si fonda la scienza della politica come analisi delle situazioni e dei rapporti di forza, e l’esigenza di una ricognizione continua delle forze in campo e la possibilità concreta nella prassi della costituzione di un blocco di forze sociali che ricomponga in nuova realtà storica l’equilibrio che sia giunto al punto di rottura della crisi. Si potrebbe sviluppare il discorso quanto alla specificità della scienza politica di Gramsci in virtù della novità dei suoi apporti, grazie alle categorie principali di guerra di movimento e guerra di posizione, nonché a quella di” lavoro socialmente necessario come insieme”, che sposta la dimensione della crisi a livello morfologico . Tale problematica è decisiva per un proficuo recupero di tali categorie gramsciane. Ma qui mi interessa fissare alcuni aspetti non secondari della riflessione di Gramsci che più risentono dei condizionamenti della sua epoca nelle circostanze della Terza Internazionale, e che se non sono evidenziati e criticati come obsolescenze della sua teoria dell’egemonia, inficiano quegli elementi ancor validi e vivi delle sue concezioni ( la sua scienza della politica e il suo recupero materialistico della dottrina delle ideologie) che consentono di affrontare gli interrogativi dell’attuale lotta di classe. Perciò mi rifarò a quella tendenza al conformismo della società a lui contemporanea cui si rifà Gramsci, e che per lui rende concretamente possibile un nuovo conformismo dal basso rivoluzionario, e me ne servirò per analizzare come egli concretamente pensa le nozioni di diritto e di libertà, e il loro avvento in nuove forme socialiste.
Nella nota 2 del Q. 8, dal significativo titolo “ Lo Stato e la concezione del diritto” Gramsci individua nella idea che del diritto ha la borghesia una teoria rivoluzionaria della funzione dello Stato, che può essere perfezionata fino al suo compimento solo dalla classe operaia intenzionata al comunismo. Tale rivoluzione “ consiste specialmente nella volontà di conformismo ( quindi eticità del diritto e dello Stato). Le classi dominanti precedenti erano essenzialmente conservatrici nel senso che non tendevano ad elaborare un passaggio organico dalle altre classi alla loro, ad allargare cioè la loro sfera di classe “tecnicamente e ideologicamente; la concezione di casta chiusa. La classe borghese pone se stessa come un organismo in continuo movimento, capace di assorbire tutta la società, assimilandola al suo livello culturale ed economico tutta la funzione dello Stato è trasformata; lo Stato diventa” educatore”, ecc”).
Per Gramsci, dopo il 1870, la borghesia in Europa, dalla guerra di movimento della Rivoluzione permanente, che contraddistingue la fase corporativa del suo sviluppo ( negli anni che vanno dal 1789 al 1846 in particolar), caratterizzata da una maggiore autonomia sa della società civile nei confronti di un apparato dello Stato politico relativamente poco sviluppato, che delle economie nazionali dalle relazioni del mercato mondiale, - ossia dall’esercizio di un dominio affidato all’obbligazione esterna delle leggi di uno Stato politico di classe ancora debole, è passata alla guerra di posizione dell’egemonia civile, assicurata da uno sviluppo più ampio sia delle organizzazioni dello Stato politico , che delle associazioni nella società civile, da un esercizio del potere politico di classe consistente prevalentemente nella pressione collettiva, di pertinenza della società civile e della sfera morale del diritto, il tutto alimentato dalle ideologie organiche prodotte dalla funzione e dalla posizione esercitata dal gruppo dominante nel mondo della produzione. E’ su questo terreno che la borghesia impone oramai di lottare al movimento operaio occidentale, costringendolo, se vuole affermarsi come nuova classe dominante e dirigente, ad un’azione totale e i sulla società . All’espansione rivoluzionaria integrale del proletariato tende allora a corrispondere come reazione , ed è l’esperienza storica allora in atto del fascismo, una regressione della borghesia alla concezione ed alla pratica dello Stato come pura forza. Ora, ne conclude Gramsci, “ una classe che ponga se stessa come passibile di assimilare tutta la società, e sia nello stesso tempo realmente capace di esprimere questo processo, porta alla perfezione questa concezione dello Stato e del diritto, tanto da concepire la fine dello Stato e del diritto come diventati inutili per avere esaurito il loro compito ed essere stati assorbiti dalla società civile”. La volontà egemonica del conformismo dal basso della classe operaia, la sola capace di assimilare tutta la società, assume come contenuto, secondo l’indicazione marxiana dell’Introduzione del ’59, i compiti che la società si pone perché esistono già le condizioni della loro realizzazione.
Si pone così ineludibilmente il problema del rapporto tra singolo individuo sociale e uomo collettivo. “ Ma come ogni singolo individuo- si chiede Gramsci- riuscirà a incorporarsi nell’uomo collettivo e come avverrà la pressione educativa sui singoli ottenendone il consenso e la collaborazione, facendo diventare “libertà” la necessità e la coercizione? Quistione del “diritto”, il cui concetto dovrà essere esteso, comprendendovi anche quelle attività che oggi cadono sotto la formula di “indifferente giuridico”, e che sono di dominio della società civile che opera senza “sanzioni” e senza”obbligazioni”, ma non pertanto esercita una pressione collettiva e ottiene risultati obiettivi di elaborazione nei costumi, nei modi di pensare e di operare, nella moralità ecc”.
Il “problema giuridico” si configura pertanto come la tendenza della “conformazione” delle masse alle esigenze del fine da raggiungere operata dalla frazione avanzata del raggruppamento stesso”.Gramsci distingue in merito tra diritto giuridicamente inteso( le leggi, quindi il diritto in senso restrittivo), e diritto in senso estensivo, inteso come “estensione dell’intervento statuale nella vita dei cittadini” e che comprende l’ambito delle azioni umane che i giuristi definiscono “giuridicamente indifferente”.
Nella volontà di conformismo che lo determina, in seconda istanza, il diritto dunque non comprende soltanto l’attività dello Stato politico mediante l’obbligazione coercitiva esterna della legge, ma include la sfera stessa della morale e del costume che è di apparente indifferenza giuridica ma che assicura l’assimilazione integrale della vita sociale prevalentemente non coercitiva, per il tramite ad esempio dell’opinione pubblica.
Si delinea così la questione etica di come far corrispondere la condotta di ogni individuo ai fini che la società si pone, e della grande importanza che assume per questo appunto l opinione pubblica.
La formazione della volontà collettiva rivoluzionaria è la diffusione , di conseguenza, di un conformismo che è razionale in quanto tende a far diventare “spontaneità”, cioè libertà , la necessità esterna oggettiva ed universale dello sviluppo delle forze produttive, in cui, estrinsecamente, Gramsci identifica il criterio dell’utilitarismo. La raggiunta coscienza e consapevolezza delle necessità esterne dello sviluppo fine a se stesso dell’apparato produttivo è l incarnazione nella dialettica oggettiva di Gramsci del farsi libertà della necessità, tramite il diritto, e del farsi qualità della quantità.
Nella nota “animalità e industrialismo “ del Q.22 troviamo ulteriori elementi significativi sul nesso tra natura umana e sviluppo delle forze produttive. “ La storia dell’industrialismo- scrive Gramsci- è sempre stata ( e lo diventa oggi in forma più accentuata e rigorosa) una continua lotta contro l’elemento “animalità” dell’uomo, un processo ininterrotto, spesso doloroso e sanguinoso, di soggiogamento degli istinti ( naturali, cioè animaleschi e primitivi) a sempre nuove , più complesse rigide norme e abitudini di ordine, di esattezza, di precisione, che rendono possibili le forme più complesse di vita collettiva che sono la conseguenza necessaria dello sviluppo dell’ industrialismo. Questa lotta è imposta dall’esterno e fin d’ora i risultati ottenuti, sebbene di grande valore pratico immediato, sono puramente meccanici in gran parte, non sono diventati una”seconda natura”… Anche gli istinti che oggi sono da superare come ancora troppo “animaleschi” in realtà sono stati un progresso notevole su quelli anteriori, ancor più primitivi … A ogni avvento di nuovi tipi di civiltà, o nel corso del processo di sviluppo, ci sono state delle crisi, Ma chi fu coinvolto in queste crisi? Non le masse lavoratrici, ma le classi medie e una parte della stessa classe dominante, che avevano sentito anch’esse la pressione coercitiva, che necessariamente era esercitata su tutta l’area sociale. Le crisi di libertinismo sono state numerose, ogni epoca storica ne ha avuta una”.
Ciò che Gramsci pone in relazione sono lo sviluppo delle forze produttive e le forme di vita che esse implicano, ed egli in queste forme di vita successive vede un continuo superamento dell’”elemento animalità dell’uomo”. Dapprima egli si riferisce all’industrialismo capitalistico, ma poi si domanda se “ogni nuovo modo di vivere, nel periodo in cui si impone la lotta contro il vecchio, non è sempre stato per un certo tempo il risultato di una compressione meccanica”. E’ importante rilevare la limitazione a “ per un certo tempo” che egli pone alla costrizione esteriore, che non indica soltanto che da una compressione delle libertà e dal sacrificio non si possa prescindere nelle fasi di strutturazione di una nuova forma di civiltà, ma rivela che per Gramsci alla storia in cui l’ordine necessario delle cose è il presupposto della libertà per pochi non subentra il regno della libertà ove la ricchezza della soggettività della personalità umana è fine a se stessa, per cui tutte le civiltà nelle quali si sono sviluppate le forze produttive fino allo stadio capitalistico diventano la necessità, oggettivatasi tramite il lavoro in formazioni economico sociali, che finalmente può essere soggiogata ai fini dello sviluppo della natura umana e della sua realizzazione onnilaterale. Marx in tal senso vede nella produzione sulla base dei valori di scambio il presupposto dello sviluppo delle capacità degli individui , la reale base sulla quale può ergersi il regno della libertà.” Gli individui universalmente sviluppati, i cui rapporti sociali in quanto loro relazioni proprie, comuni, sono anche assoggettati al loro comune controllo, non sono un prodotto della natura, bensì della storia. Il grado e l universalità dello sviluppo delle capacità in cui questa individualità diviene possibile, presuppone appunto la produzione sulla base dei valori di scambio; quest’ultima produce per la prima volta, insieme con l universalità, l’estraneazione dell’individuo da sé e dagli altri, ma anche l’universalità e la versatilità l delle sue relazioni e capacità.
Detto altrimenti,” l’indipendenza e l indifferenza reciproche “ degli individui ha il suo presupposto storico nel mercato mondiale” ove “ la connessione del singolo con tutti, ma al tempo stesso anche l’ indipendenza di questa connessione dai singoli stessi, si è sviluppata d un livello tale, che quindi la sua formazione contiene al tempo stesso la condizione del suo superamento)”
Questo “nesso soltanto materiale” che fonda la reciproca indifferenza e indipendenza degli individuali non è un dato naturale, ma un prodotto storico, in cui la reificazione dell’alienazione è la condizione al tempo stessi dello sviluppo delle capacità e delle relazioni universali dell’ uomo e del suo superamento comunistico.
“ Negli stadi precedenti dello sviluppo, il singolo individuo appare più compiuto appunto perché mon ha ancora elaborato la pienezza delle sue relazioni e non se la è ancora posta di fronte come insieme di potenze e di rapporti sociali da lui indipendenti”. Perciò secondo Marx è ridicolo “ rimpiangere quella pienezza originaria, proprio come è ridicolo pensare di dover permanere in questa situazione di totale svuotamento” Ma è in tale completo svuotamento che insieme con l’alienazione dell’individuo da sé e dagli altri pur tuttavia si produce l’universalità e l’organicità delle sue relazioni e capacità, in circostanze in cui ancora , però, l’ astratta generalità equiparatrice della forma di valore del feticismo delle merci si sostituisce alla reale comunità e universalità, di cui pure crea le condizioni necessarie . “La concezione borghese non è mai riuscita ad andare oltre la contrapposizione con quella concezione romantica e quindi essa l’accompagnerà come contrapposizione legittima fino alla sua fine beata”
Ma al di là di quest’opposizione , sui presupposto imprescindibile del regno della necessità, “ comincia lo sviluppo della capacità umana che è fine a se stessa, il vero regno della libertà, che tuttavia può fiorire soltanto sulla base di quel regno della necessità. Condizione di tutto ciò è la riduzione della giornata lavorativa”
Ciò che non lascia dubbi è che in Marx la libertà si esprime come controllo degli individui universalmente sviluppati sulle loro relazioni proprie e come potere di regolare razionalmente il loro ricambio organico con la natura, di” portarlo sotto il loro comune controllo, invece di essere da esso dominati come da una forza cieca”.
Marx esprime in tali termini la più alta concezione della politica, la politica che pone l individuo come fine.
i rapporti personali non emergono più come nel mondo moderno “ quale pura emanazione dei rapporti di produzione e di scambio, “ ma come espressione della molteplice natura umana che si conforma da sé.
Di ritorno a Gramsci cerchiamo di seguirlo fino in fondo al suo ragionamento in tema di libertà e necessità.. Egli stabilisce un’opposizione che si riproduce all’interno dell’industrialismo tra” l’elemento animalità dell’ uomo” e “ forme sempre più complesse di vita collettiva” che comportano norme rigide e abitudini di ordine. Esse però non sono diventate una “seconda natura”, finché sono rimaste imposte dall’esterno . Qualora però si produca una sufficiente interiorizzazione della” virtù” nelle masse la pressione coercitiva si allenta e ciò produce “ le crisi di libertinismo ”. Le masse popolari del suo tempo egli ritiene che tuttavia siano state toccate solo superficialmente da simili crisi, talmente hanno interiorizzato la virtù coercitiva del nuovo ordine lavorativo., Gramsci guarda con estremo interesse al “fenomeno americano”, ossia alla connessione tra razionalizzazione del lavoro e proibizionismo, e riferendosi ai tentativi di alcune aziende di controllare la “moralità” degli operai, afferma che” chi irridesse a queste iniziative ( anche se andate fallite) e vedesse in esse solo una manifestazione ipocrita di “puritanismo”, si negherebbe ogni possibilità di capire lì importanza, il significato e la portata obiettiva del fenomeno americano, che è anche il maggior sforzo collettivo verificatosi finora per creare con rapidità inaudita e con coscienza del fine mai vista nella storia, un tipo nuovo di lavoratore e di uomo”
Ciò che più determina l’azione di industriali americani quali Ford è” il solo fine di conservare, fuori del lavoro, un certo equilibrio psico-fisico che impedisca il collasso fisiologico del lavoratore, spremuto dal nuovo metodo di produzione”.Ora, continua Gramsci, “ questo equilibrio non può essere che puramente esteriore e meccanico, ma potrà diventare interiore se esso sarà proposto dal lavoratore stesso e non imposto dal di fuori, da una nuova forma di società, con mezzi appropriati e originali”
In tale situazione le masse lavoratrici non subiscono più la pressione coercitiva di una classe superiore e “ le nuove abitudini e attitudini psico-fisiche connesse ai nuovi metodi di produzione e di lavoro devono essere acquistate per via di persuasione reciproca e di convinzione individualmente proposta e accettata”
Può così determinarsi un “conflitto intimo” tra le parole e i fatti, tra “ideologia verbale” che riconosce le nuove necessità e la pratica reale “animalesca” che impedisce ai corpi fisici l’effettiva acquisizione delle nuove attitudini”, come si esprime Gramsci, che coinvolge non soltanto le classi medie e alte ma anche le classi lavoratrici. Si avrebbe così “una situazione di ipocrisia sociale totalitaria”, ” a prospettiva catastrofica”, che potrà essere risolta solo con “una coercizione di nuovo tipo, in quanto esercitata dalla èlite di una classe sulla propria classe, … un’autodisciplina( Alfieri che si fa legare sulla sedia).”
Nella formazione di una nuova civiltà è un’esigenza fondamentale la conformazione anche fisica di nuovi tipi di umanità per adeguare “ la moralità delle più vaste masse popolari alle necessità del continuo sviluppo dell’apparato economico di produzione”.
“ occorre persuadersi-ribadisce Gramsci- che non solo è “oggettivo” e necessario un certo attrezzo, ma anche un certo modo di comportarsi, una certa educazione, un certo modo di convivenza, ecc …, anzi non è mai esistita altra universalità che questa oggettiva necessità della tecnica civile …”
Ciò che Gramsci così teorizza è la subordinazione permanente e integrale degli individui alla necessità esterna della formazione economica della loro società, e la storicizzazione assoluta di ogni universalità . mentale, che identifica in riflessi ideologici delle necessità di sviluppo della società. Il pensiero politico di Gramsci risulta in ciò un rovesciamento del punto di vista di Marx secondo il quale i lavoratori sociali sono tanto più liberi quanto meno la loro attività produttiva e la loro vita sociale sono assorbite dalla riproduzione delle loro condizioni di esistenza “L’estraneità e l autonomia in cui la connessione esiste ancora rispetto agli individui , prova soltanto che essi sono ancora impegnati nella realizzazione delle condizioni della loro vita sociale, invece di averla iniziata a partire da tali condizioni”.
Il versus del movimento reale in cui rientra l’azione del singolo individuo per Gramsci è orientato sempre dalla società economica ,in cui consiste l’anatomia della società civile, alla stessa società civile e politica, ed è irreversibile . In esso va inserita la teoria dell’egemonia di Gramsci, che non ha come fino l individuo nella pienezza del suo sviluppo, ma la immedesimazione della sua libertà nel riconoscimento e nell’assecondamento delle necessità di sviluppo univoche e indiscutibili delle forze produttive della formazione economica della società nel suo stadio storico di sviluppo. Lo stesso Nicola Badaloni nella sua disamina della teoria della politica di Gramsci è concorde: “ dal punto di vista teorico complessivo non vi è dubbio sul fatto che il nuovo individualismo debba presupporre il collettivo ed il suo referente reale, la necessità di un piano; rovesciare l ordine di questi elementi significherebbe falsare il pensiero gramsciano”.
Resta indubbio che il pensiero di Marx colloca l’azione e la simbolizzazione che specificano la soggettività umana dentro la relazione tra le forze produttive e i rapporti sociali di produzione, la cui reificazione si fa ideologia e idealismo moderno.
“ Questi rapporti di dipendenza materiali , in antitesi con quelli personali ( il rapporto di dipendenza materiale non è altro che l insieme delle relazioni sociali che si contrappongono autonomamente agli individui apparentemente indipendenti, ossia le loro relazioni di produzione reciproche divenute autonome rispetto a loro stessi9, suscitano anche l impressione che ora gli individui siano dominati da astrazioni, mentre in precedenza dipendevano gli uni dagli altri. L’astrazione o idea però non è altro che l’espressione teorica di quei rapporti materiali che esercitano il dominio su di essi. Naturalmente i rapporti possono venire espressi soltanto sotto forma di idee, e così i filosofi hanno individuato la peculiarità dell’epoca moderna nel suo essere dominata da idee e hanno identificato la creazione della libera individualità con l’abbattimento di questo dominio di idee. Dal punto di vista ideologico l’ errore era tanto più facile da commettere, in quanto quel dominio dei rapporti ( quella dipendenza materia, che d’altronde si rovescia a sua volta in rapporti di dipendenza personali, solo spogliati di ogni illusione ) nella coscienza degli individui stessi si presenta come dominio di idee, ossia di quei rapporti di dipendenza materiali, viene naturalmente rafforzata, alimentata e inculcata in ogni modo dalle classi dominanti.

Ma è altresì vero che tale sussunzione e interiorizzazione è integrabile nel suo materialismo storico con tutte le scienze naturali e umane, nella loro autonomia specifica, per le quali il soggetto è sempre strutturato da un’alterità, sia essa familiare, amicale, di gruppo, economico-sociale o simbolica, che dentro tali processualità in cui si forma e sviluppa l’autonomia della naturalità individuale è irriducibile, che e nei bisogni di sviluppo delle sue componenti innate resta il fine del comunismo. Marx non ipostatizza in tal senso alcuna contrapposizione tra idea-forza del collettivo ed idea-forza dell’individualità.
Nulla di più antitetico è la “situazione di ipocrisia sociale totalitaria” ipotizzata da Gramsci come possibile sbocco di una mancata soluzione del conflitto intimo tra norma di condotta economicamente necessaria e istinti animaleschi delle classi lavoratrici impegnate nella formazione di una nuova civiltà. In essa la dialettica tra necessità interna della formazione economico sociale e necessità interna, fondata sui bisogni individuali , innanzitutto quelli di sviluppo delle proprie capacità e della propria soggettività, si risolve nella interiorizzazione della necessità esterna da parte di una necessità interna ridotta a mera istintualità animalesca e a sedimentazione in una seconda natura umana delle necessità esterne di una fase storica di sviluppo oramai superata.
La natura umana anziché produrre non certo come propria emanazione spontanea immediata i rapporti sociali che si fanno su di essa sovra dominanti, apparendo una forza reificata di natura, ( “ in Marx ” Ma è assurdo concepire quella connessione soltanto oggettiva come la connessione spontanea, inscindibile dalla natura umana dell’ individualità( in antitesi al sapere e volere riflessi) e ad essa immanente “) ne risulta essere così un prodotto, un’espressione.
“La “ natura” dell’uomo è l’insieme dei rapporti sociali che determina la coscienza storicamente definita; questa coscienza solo può indicare ciò che è “ naturale” e “contro natura “. La natura umana al più può ambire ad essere coscienza storicamente determinata dei rapporti che la determinano e della loro contraddittorietà con lo sviluppo delle forze produttive, accorpata nelle coscienze storiche di gruppo in cui si frammenta un possibile punto di vista complessivo-, universale. La frammentazione è più forte per i gruppi subalterni, “per l’assenza di autonomia nella iniziativa storica”, “- Pertanto “ Occorre fare libertà di ciò che è necessario, ma perciò occorre riconoscere una necessità obiettiva, cioè che sia obbiettiva precipuamente per il gruppo in parola. Bisogna perciò riferirsi ai rapporti tecnici di produzione, a un determinato tipo di civiltà economica che per essere sviluppata domanda un determinato modo di vivere, determinate regole di condotta, un certo costume ”.
Ritorniamo così al verso deterministico di cui si parlava in precedenza: dall’apparato della struttura economica allo stato etico ad esso conforme. La coscienza storica si fonda sulle esigenze di sviluppo di un determinato tipo di civiltà economica, e perciò domanda norme conformi di comportamento .Si afferma cos’ l’eteronomia permanente del dominio della struttura economica sulla coscienza individuale mediante lo stato etico, in luogo della autonomia come egemonia della libertà della sviluppo della natura umana , quale fine, sulla necessità esterna- incluse le necessità costanti della produzione sociale. Tale modo di riproporre la dialettica necessità esterna- necessità interna, origina l’opposizione del punto di vista romantico al capitalismo moderno, nel suo volgersi alla pienezza originaria, e così “l’antica concezione secondo cui l’uomo … è sempre lo scopo della produzione, sembra molto elevata nei confronti del mondo moderno, in cui la produzione si presenta come scopo dell’uomo, e la ricchezza come scopo della produzione”.
Nel mancato riconoscimento di un’autonomia alla necessità interna, se non come disvalore, quale reattività animalesca alla logica superiore di una più avanzata civiltà economica, viene meno il campo di visibilità di una dimensione della politica ove l individuo è scopo a se stesso, e che per tale chiusura si ripresenta come impoliticità. Le coeve considerazioni di un impolitico di Thomas Mann sono appunto la reazione dal punto di vista umanistico-borghese a questa occlusione della politica,
Questo stesso problema, ma con un’apertura alla politica che ha l’autonomia dell’individuo come fine, lo ritroviamo espresso e ripreso con estrema chiarezza in un luogo straordinario dei Lineamenti fondamentali di critica dell’economia politica di Marx, da cui ho estrapolato la citazione antecedente.
“ Ma, in fact, una volta cancellata la limitata forma borghese, che cosa è la ricchezza se non l’universalità dei bisogni, delle capacità dei godimenti, delle forze produttive, ecc. degli individui, creata dallo scambio universale? Che cosa è se non il pieno sviluppo del dominio dell uomo sulle forze della natura, sia su quelle della c.d. natura, sia su quelle della propria natura? Che cosa è se non l’estrinsecazione assoluta delle sue doti creative, senz’altro presupposto che il precedente sviluppo storico, che rende fine a se stessa questa totalità dello sviluppo, cioè dello sviluppo di tutte le forze umane come tali,non misurate su un metro già dato? Nella quale l’uomo non si riproduce in una dimensione determinata ma produce la propria totalità? Dove non cerca di rimanere qualcosa di divenuto , ma è nel movimento assoluto del divenire? Nella economia politica borghese. E nella fase storica di produzione cui essa corrisponde- questa completa estrinsecazione della natura interna dell’uomo si presenta come un completo svuotamento, questa universale oggettivazione come alienazione totale, e la eliminazione di tutti gli scopi determinati unilaterali come sacrificio dello scopo autonomo a uno scopo completamente esterno. Perciò da un lato l infantile mondo antico si presenta come qualcosa di più elevato; dall’altro lato esso lo è in tutto ciò in cui si cerca di ritrovare un’immagine compiuta, una forma, e una delimitazione oggettiva. Esso è soddisfazione da un punto di vista limitato; mentre il mondo moderno lascia insoddisfatti, o, dove esso appare soddisfatto di se stesso, è volgare”.
“ Di fatto, asserisce Marx, il regno della libertà comincia soltanto là dove finisce il lavoro determinato dalla necessità e dalla finalità esterna, si trova quindi per sua natura oltre la sfera della produzione materiale vera e propria”.
Resta da considerare quale sia l’obiettivo polemico della storicizzazione integrale della natura umana compiuta da Gramsci ed in quale progetto culturale e politico più determinato si inserisca .
Egli in realtà vuole disvelare la natura di classe che sostiene “ la base utopistica delle ultime filosofie” (quella di Benedetto Croce),, mentre il progetto di Gramsci è in antagonismo la concreta (reale) unificazione del genere umano nella società regolata di una formazione economica della società che sia unitaria Perciò egli deve criticare l’unità del genere umano come un presupposto pre-esistente , e in alternativa sostenerne l’ unificazione storica possibile con il comunismo.” L’ unità del genere umano non è data-scrive Gramsci- dalla” natura biologica dell uomo”, come suppone una naturalistica “ antropologia”, e neanche “ la “facoltà di “ ragionare” o lo “spirito “ ha creato unità o può essere riconosciuto come fatto unitario, perché concetto solo formale, categorico. Non il “pensiero” ma ciò che realmente si pensa unifica o differenzia gli uomini.”
In tali termini egli riprende la critica dell’idealismo filosofico contemporaneo di Marx, ossia la critica della “ideologia tedesca” che è basilare nel suo materialismo, come si è visto nella sua ripresa negli stessi Grundrisse, e da Hegel la estende a Croce, il cui utopismo consiste appunto nel credere che la sua “logica concettuale “ sia la logica mentale in cui consiste l unità unificante del genere umano.
“ Che la dialettica hegeliana sia stata un riflesso di questi grandi nodi storici ( la trasformazione del mondo classico- la trasformazione del mondo medioevale- che hanno posto gli anelli più potenti dello sviluppo storico) e che la dialettica, da espressione delle contraddizioni sociali, debba diventare, con la sparizione di queste contraddizioni, una pura dialettica concettuale, sarebbe alla base delle ultime filosofie a base utopistica come quella di Croce”.
La replica della filosofia della prassi di Gramsci è in antitesi categorica: essendo la natura umana storicamente determinata l’ espressione dei rapporti sociali, e non esistendo “l’uomo in generale”, ne consegue che uguaglianza, disuguaglianza, e riunificazione egualitaria del genere umano consistono nel’uguaglianza , disuguaglianza, e riunificazione, dei loro rapporti sociali e delle istituzioni che ne sono rappresentative, in ultima istanza lo Stato, e va così misurato il grado di “ spiritualità” raggiunto dal genere umano. Egli in tali termini seguita infatti la nota fondamentale Materialismo e materialismo storico dei suoi Quaderni dal carcere:
”Nella storia l’”uguaglianza” reale, cioè la “natura umana”, si identifica nel sistema di associazioni, “private e pubbliche”, esplicite o implicite, che si annodano nello “Stato” e nel sistema mondiale politico: si tratta di”uguaglianze” sentite come tali fra i membri di una associazione e di “ diseguaglianze” sentite tra le diverse associazioni, uguaglianze e disuguaglianze che valgono in quanto se ne abbia coscienza individualmente e come gruppo”.
Gramsci in tal modo al contempo demistifica secondo il suo punto di vista l’idealismo crociano, la sua unità postulata a priori del genere umano, manifestata dalla sua dialettica concettuale, e assume tale unità come obiettivo e contenuto del suo programma rivoluzionario di unificazione egualitaria del genere umano, che solo il proletariato può portare a compimento, per il tramite della sua prassi in cui filosofia e politica si identificano, l’una , la filosofia, risolvendosi nella prassi politica, il che è ciò che fa del proletariato il vero erede della filosofia classica tedesca.
“ Si giunge così anche all’uguaglianza o equazione tra “ filosofia e politica”, tra pensiero e azione, cioè a una filosofia della praxis. Tutto è politica, anche la filosofia o le filosofie 8 confronta nota sul carattere delle ideologie) e la sola “filosofia” è la storia in atto, cioè la vita stessa. In questo senso si può interpretare la tesi del proletariato tedesco classica tedesca- e si può affermare che la teorizzazione e la realizzazione dell’egemonia fatta da Ilic è stata anche un grande avvenimento “ metafisico”.
In tal modo l’unificazione del genere umano e della sua cultura si viene a configurare come la civilizzazione che instaura rapporti tra uguali che ne esprimono l’ insieme non più contraddittorio, dove la natura umana è realizzata da ciascuno uniformemente, in una totalità espressiva dello stesso centro. Sicché il nuovo conformismo dal basso proposto da Gramsci, che pur deve passare” attraverso una fase di sviluppo di individualità e personalità critica” è pur sempre teso all’assimilazione di ciascuno e della cultura ad una stessa coscienza storica universale unificante, a una sussunzione della naturalità umana, ricondotta ad istinti animaleschi, alla moralità che incarna le esigenze di sviluppo dell’apparato produttivo
E così è rovesciata nel suo opposto l’adeguatezza o inadeguatezza in Marx della naturalità dell’ uomo al suo essere storico che ne è lo sviluppo, che per Marx si configura come conformazione dell’individuo a sé stesso, ossia alla singolarità della propria natura umana, che si può affermare soltanto in quel regno della libertà ove lo sviluppo delle capacità è fine a se stesso e si esprime come molteplicità.












LA CRITICA DEL MODERNO E LA CRISI NICHILISTICA DELLA CULTURA IN NIETZSCHE



Per Nietzsche, dagli scritti giovanili fino agli ultimi, prima della crisi fatale di Torino, è la cultura- sia che ponga al suo vertice l'arte, sia che vi ponga la filosofia o le scienze- che sempre è per lui il fine ideale dello Stato, laddove nella realtà del suo tempo, com'è accaduto in Germania con l'avvento e l'ascesa del Reich, è lo Stato che subordina la cultura alla sua volontà di potenza.
Il genio, per il giovane Nietzsche, il " vero spirito libero " per l'autore di " Al di là del bene e del male", sono la potenza di cui lo Stato dev'essere strumento, gli individui ai quali tutti gli altri vanno sottomessi, poiché " ogni uomo, con tutta la sua attività, acquista una dignità- scrive già in " Lo Stato greco", solo in quanto sia, coscientemente o inconsciamente, uno strumento del genio; onde si può dedurre senz'altro la conclusione etica che l'"uomo in sé", l'uomo in assoluto, non possiede né dignità né diritti né doveri: solo come essere pienamente determinato, al servizio di scopi ignoti, l'uomo può giustificare la propria esistenza".
E' pertanto incontrovertibile che" la schiavitù rientra nell'essenza di una cultura" ( ibidem).
" La venerazione e la distanza fra uomo e uomo- riaffermerà nell'Anticristo- " è il presupposto di ogni elevazione, di ogni sviluppo della cultura".
" Perché esista un terreno vasto, profondo e fertile per lo sviluppo dell'arte, la stragrande maggioranza degli uomini dev'essere al servizio di una minoranza, dev'essere sottomessa- in una misura superiore alla sua stessa miseria individuale- alla schiavitù dei bisogni impellenti della vita. A spese di questa maggioranza e attraverso il suo lavoro supplementare quella stessa classe privilegiata dev'essere sottratta alla lotta per l esistenza, per produrre un nuovo mondo di bisogni e per soddisfare a questi".
E' nella stessa prospettiva che in " Al di là del bene e del male" Nietzsche polemizza contro i " falsi spiriti liberi", contro i livellatori democratici, per i quali le cause di tutte le miserie e degli insuccessi umani sono le vecchie forme di società, sicché, perchè gli uomini si sviluppino autosuperandosi, occorrerebbe battersi per l'uguaglianza dei diritti e l'abolizione del dolore, dei pericoli, e delle difficoltà, rendendo così felice, facile e sicura la vita sociale.
Per Nietzsche, invece, pressione e coercizione, durezza, violenza e schiavitù, il dolore, il pericolo, le difficoltà e la malvagità ( " la potenza è sempre malvagia" , già aveva affermato in " Lo Stato greco"), quanto la segretezza enigmatica della maschera e la solitudine insocievole, sono in realtà le condizioni stesse di espansione della volontà di potenza degli uomini che sono " veri spiriti liberi" ( aforisma 44).
Il filosofo del futuro, il vero spirito libero si servirà dunque dello Stato e della Religione, nella loro natura coercitiva, per educare le vere nature forti, gli spiriti aristocratici, a " vincere le opposizioni al comando su se stessi", che sorgono dagli istinti interiori; eventualmente, come i brahmini d'India, delegando ad altri il governo politico, per tenersi in disparte rispetto " alle necessarie sozzure di ogni politica attiva", in vista di " compiti più alti e superiori a quelli di un re". Il codice di Manu fornirà a Nietzsche nell'Anticristo, in opposizione al cristianesimo, il modello gerarchico entro il quale sono gli uomini spirituali che comandano, mentre i nobili guerrieri ed il re sono invece gli esecutori che li sollevano da " tutto ciò che vi è di grossolano nel lavoro complesso di governare" coloro che esercitano le attività professionali ed i lavori più umili, mediocri ed infimi nel potere e nel desiderare. " La disuguaglianza dei diritti -sostiene appunto Nietzsche- è la condizione prima perchè si diano dei diritti. Un diritto è un privilegio" ( Anticristo, 57).
In tal senso la religione servirà agli uomini spirituali per nobilitare e santificare nelle coscienze degli inferiori, giustificandola, la miseria e la meschinità della loro esistenza , che è quella delle grandi moltitudini , gioverà a far loro sopportare la durezza del duro ordine reale in cui vivono, ch'è indispensabile ad assicurare, grazie al loro pluslavoro, l'esistenza privilegiata degli spiriti superiori. Tuttavia le religioni hanno una valenza positiva solo se sono uno strumento di educazione asservito ai nuovi filosofi; ma guai se diventano sovrane. Come le attuali religioni, ed i valor attuali della modernità-uguaglianza, giustizia, democrazia-, tenderebbero allora a conservare le forme di vita più deboli a scapito e danno dei più forti ( Al di là del bene e del male, aforisma 51).
Ma quant'è schiavitù dei più per assicurare la supremazia degli spiriti superiori, per Nietzsche la grande cultura ne è l'autodominio. Egualitarismo, anarchismo ed utilitarismo sono ulteriormente criticati da Nietzsche in quanto appunto non comprendono che ciò che c'è di libertà " nello stesso pensiero, o nel governare, o nel parlare e convincere, nelle arti come negli usi e costumi," ciò che c'è di più " naturale" non è il risultato di un lasciarsi andare, ma di un'obbedienza infinita a innumerevoli leggi, di una interminabile coercizione morale, pur anche di una riduzione necessaria delle prospettive, che con la schiavitù dei più e l' autodominio degli spiriti liberi, eleva una necessaria stupidità di limitati orizzonti, insieme con la " forza attiva di dimenticare, a condizione di vita e di crescita. ( "Al di là del bene e del male" aforisma 188).

Per Nietzsche l'al di là del bene e del male del dominio della cultura degli spiriti liberi, viene così a configurarsi non già come una società senza più contrapposizione di valori, ove valgono solo le equivalenze, ma come il rovesciamento dell inversione dei valori naturali della vita nelle sue leggi selettive di sviluppo,che è stato generato dalla rivolta millenaria dei deboli e degli schiavi in morale, dalla cattiveria spiritualizzata della loro vendetta reattiva contro i forti. Ne sono il trionfo appunto gli ideali moderni di uguaglianza, di democrazia, di giustizia, di cui si è detto, nonchè di disinteresse e di obiettività, nelle relazioni e nella conoscenza, affermatisi con il Cristianesimo prima, poi con la Riforma , quindi con le moderne rivoluzioni, con principi ed i movimenti anarchici e socialisti del suo tempo, che avevano semplicemente tradotto nel sangue e nel crimine l'apprezzamento cristiano di ciò che sia valore, che afferma l'eguaglianza delle anime e dei corpi.
Tale rovesciamento, o transvalutazione , dell'inversione dei valori contronaturali della modernità, è la restaurazione della contrapposizione di valori della morale aristocratica originaria, ovverosia della morale dei valori che esalta la nuda forza assoggettante, nel corso di una autentica " negazione della negazione" di una fenomenologia dialettica della morale, per il tramite civile, al suo orizzonte storico, della " grande politica" di un imperialismo ariano.
In tal senso l'al di la del bene e del male non è " al di là del buono e del cattivo", ma " al di là del buono e del malvagio" della morale moderna degli schiavi( genealogia della morale, I, 17), dell’ istinto gregario dell'obbedienza a discapito dell'arte del comando, la cui critica con il cristianesimo, l utilitarismo borghese, il socialismo, l'anarchismo ed il femminismo egualitari, la democratizzazione di massa quale mediocrizzazione e rimpicciolimento dell uomo. investe nell'ambito dei saperi del suo tempo il positivismo in quanto emancipazione della scienza specialistica , obiettiva, storicizzante, dalla filosofia sovrana degli spiriti liberi, creatrice di valori e legislatrice arbitraria).
Ciò affermato, tuttavia il modo di esistenza concreto ed attuale degli spiriti liberi sarà caratterizzato dall'accettazione che vigano in atto i valori vitali naturalistici dell'assoggettamento e dell'appropriazione vulneratrice, più che dal loro esercizio in rapporti di forza in cui entrino, e con la sofferenza, il contrasto, la guerra, il disagio, l imprudenza, l insicurezza quale status vitale, li contrassegneranno la volontà di essere se stessi e di staccarsi dagli altri, il pathos della distanza e dell'ampliamento dell'animo, l'appartarsi nella solitudine, nella segretezza enigmatica, nel non attaccamento, l'essere sempre al di là, nella pacatezza.
Codesto non attaccamento implica tanto il rifiuto della compassione, quanto l inibizione dei sentimenti reattivi del risentimento e della vendetta, in virtù della " forza attiva del dimenticare", di non reagire e rivoltarsi.
Il modello di grandezza, di tale tenore, dello spirito libero che raffigura uno degli aforismi più significativi di "Al di là del bene e del male", il 212, è contraddistinto dall’esercizio della volontà di potenza prevalentemente come resistenza alle potenze esterne prevaricanti, per quanta realtà problematica e difficile il suo spirito riesce a sopportare.
E invece la coesistente configurazione della volontà di potenza del superuomo, che ne è la riproposizione come esercizio di sfruttamento e di assoggettamento della volontà del più debole, l'affermazione come volontà di menzogna sopraffattrice, che menzogna secondo differenti centri prospettici d'interpretazione è ogni presunta verità.
Ogni porsi " al di là del bene e del male "di volontà di potenza superiori , si fonda comunque su una critica di ogni ideale della modernità, a commento di " Così parlò Zarathustra e come " prologo di una filosofia dell'avvenire", che presuppone un naturalismo che riconosce valore solo all Essere reale del mondo sensibile e del divenire,
e alla assiologia che implica, che è un dire sì dionisiaco al flusso e all'annientamento di ogni esistenza particolare, al contrasto e alla guerra.
E' l'affermazione dell'eterno ritorno come circolazione incondizionata e infinitamente ripetuta non già tra unità cosali, enti, ma tra " pluralità", " centri di dominio", di " puntuazioni di volontà", il cui senso vitale è dato dall'essere mai sazi abbastanza ( II, 75, 76), qualsiasi forza ricercando solo cikò che dispiacendo resiste con ostilità.
" Ma questo dispiacere agisce come stimolo di vita e rafforza la volontà di potenza.
II. 78 " Gli uomini più spirituali, se si presuppone che siano i più coraggiosi, vivono anche le tragedie di gran lunga più dolorose; ma per questo rispettano la vita, perchè essa contrappone loro la massima ostilità".
E' in quanto è così fondata naturalisticamente, che codesta critica della modernità, che in Nietzsche è permanente, non è da lui esercitata che in nome del tipo opposto di uomo, da lui già esaltato negli scritti giovanili, che rappresenta il ritorno in avanti al tipo nobile arcaico che afferma apertamente la vita naturale nella crudeltà delle sue leggi di sviluppo , di cui quelle sociali non possono essere che un continuum, quale irriducibile conflitto tra potenze che anima gli stessi deboli e buoni, allorchèèperpetuano il loro sforzo millenario riuscito vincente, per il loro stesso numero maggioritario, di separare i forti dalla loro forza. Una rivolta dei deboli in morale, che provocando il rivolgersi dell'aggressività dei forti verso l interno, contro se stessi, ha ingenerato in loro il senso di colpa, che con le nozioni di " grazia", e "redenzione", serve a dare una giustificazione morale al dolore, quale sanzione del male commesso, e con la fede nella vita eterna ha rimosso la tragicità dell'annientamento quale fondo della vita.
La critica nietzscheana della modernità, nella sua consequenzialità radicale, al tempo stesso in cui esalta in contrapposizione l uomo nobile arcaico, è volta contro ogni preteso " miglioramento" dell’uomo, ogni presunta sua "umanizzazione", contro ogni "concetto morale " che sia in contrasto con " ogni concetto scientifico" della vita quale realmente è ( si confrontino ad esempio la lettera a Burckardt del 22 settembre 1886, quella a Malvida Von Maysenburg del 24 settembre 1886, o quella al barone von Seidlitz del 26 ottobre 1886).
E' tale concetto di realtà., che in opposizione all’uomo moderno accomuna lo spirito libero al superuomo dell'avvenire, nella comune volontà di riconoscere effettualmente la realtà com'è, di essere " identico ad essa" ( Ecce homo, pg.97), in quanto contraddizione, dolore, mutamento, annientamento; Pur se, a differenza del libero spirito, il superuomo ha da plasmare ulteriormente la realtà, assoggettando conformemente alla propria volontà di potenza, anziché limitarsi a riconoscerne e tollerarne gli aspetti più problematici e difficili.
La battaglia di Nietzsche contro la modernità, insieme con l'affermazione che ha valore solo l 'Essere e ciò che lo afferma, ossia, in conformità ad esso, il naturalismo che è la visione del mondo che ne consegue, e l'uomo spirituale che secondo le leggi di sviluppo della vita attua la propria volontà di potenza, implica interminabilmente la critica dei presupposti metafisici di una modernità che asservisce tali uomini spirituali alla mediocrità delle masse, inibendone l'affermazione. Tali presupposti fondano un ordinamento etico del mondo per cui esistono premi e castighi, in cui il dolore assume un senso quale conseguenza espiatrice di un peccato , e consistono, essenzialmente, per l inconscia signoria delle funzioni grammaticali di Soggetto, Predicato Verbale e Complemento Oggetto, nella superstizione dominante dell'"atomismo animistico", che crede in agenti autonomi separati e distinti dall'azione, e da ciò che raggiungono o realizzano come loro oggetti. Ne ha origine la credenza in un Soggetto od in una Sostanza che in se stessi hanno la propria origine, nell 'Io quale centro libero ed unitario di un'azione causale moralmente responsabile, da esso distinta nei suoi effetti , al pari di come realtà distinte sarebbero la coscienza e gli istinti. L'istintualità , od inconscio, è invece lo stato globale più vasto di cui la coscienza è solo lo strumento razionalizzatore, o la superficie, che insieme con il senso di colpa ne risulta dal rivolgimento all’interno dell'aggressività, quando non le è più dato di scaricarsi all'esterno. Gli stessi valori , di vero, di bello, di buono, vengono concepiti quali realtà autofondantesi rispetto ai disvalori in opposizione , mentre in realtà tutti gli opposti sono legati in unità, e tra verità e falsità, tra altruismo ed egoismo c'è legame e derivazione reciproca, essendo funzioni di forme di vita che tendono a conservarsi a scapito di altre.
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Nel corso del 18886 e del 1887, sulla critica della modernità inizia a prevalere nel pensiero di Nietzsche la critica di quelle forme di critica della modernità che non si risolvono nell'affermazione del tipo opposto di uomo, aristocratico, che è in grado di affermare nella sua volontà di potenza il si alla crudeltà della vita di una cultura superiore , ossia prende corpo la critica di tutte le forme di " decadence" del nichilismo a lui contemporaneo, fenomeno che nella considerazione di Nietzsche assurge a " pericolo dei pericoli".
Generativo del nichilismo è innanzitutto il rifiuto del valore, del senso, di qualsiasi desiderabilità della vita, un sentimento di insensatezza del tutto, che ha origine dallo stesso valore di verità della veracità cristiana, per un processo di autodissoluzione della morale, allorché la credenza che " Dio è verità" precipita nella convinzione opposta che tutto è falso, per cui crolla il valore della verità medesima, e la vita non si disvela che come falsificazione senza senso e senza mete.
Nella complessa fenomenologia del nichilismo , di cui la stessa modernità è una manifestazione originaria e originante, Nietzsche individua preliminarmente il nichilismo di chi, in cerca della verità, disprezza il mondo del divenire, rifiuta il mutamento, ma non è più capace di creare l immagine immutabile di un mondo permanente dell'essere ad esso contrapposto, e di credere ad essa. Il mondo qual è, che cambia, si trasforma, egli ritiene che non dovrebbe essere, perchè è causa di contraddizione, di illusione, di dolore, mentre il mondo quale dovrebbe essere , il mondo vero del permanente, sola garanzia di felicità, egli ritiene che non esista. L'esistere nel solo mondo che esiste, il mondo del mutamento, non ha dunque senso.... Il mondo reale è così divenuto il mondo apparente di cui dobbiamo liberarci, di cui dobbiamo essere il contrario per attingere la perfezione.
Oltre al debole della reattività della morale moderna, da Nietzsche caratterizzato nella Genealogia moderna, la cui coalizione maggioritaria mira a che chi è il forte si infranga rivolgendo contro se stesso la propria forza, Nietzsche rilevò in tal modo il diffondersi di una forma ulteriore di debolezza, quella del debole che vuole il nulla perché il mondo non ha più valore per sé, e che pertanto vuole distruggere per essere annientato. E' così che pensava ed agiva il terrorismo del suo tempo.
Un ulteriore forma di debolezza che recepisce è l'idiotismo, dostoevskiano, di chi non vuole più perché si contenta di stare in pace; ogni contatto, ogni resistenza che oppone, suscita in lui un'estrema sofferenza ed irritabilità, per cui non è più ostile a nessuno e non oppone più resistenza al male. A sommo esempio di tale debolezza Nietzsche assurge lo stesso Gesù, nelle sue affinità e differenze con il Buddha. ( nota 1). Sono " La mia religione di Tolstoi" e le opere di Dostoevskij, soprattutto, che sensibilizzano Nietzsche alla diffusione di tale forma rigeneratasi di debolezza, che come fenomeno ad egli contemporaneo in Ecce homo definirà come il "fatalismo russo". Il debole, per tale sua variante, non è più identificato rigidamente, come nella Genealogia della morale, con la determinazione del risentimento, quale unica manifestazione della sua natura.
Ma il nichilismo può altrimenti essere sintomo di forza crescente, di una forza di volontà che può fare a meno di credere che il mondo così com'è già in sé abbia un senso, e che suppone che il mondo così come dev'essere non esista, che il mondo sia privo di qualsiasi senso, ma appunto per questo vuole creare un mondo così come dev'essere, che è ancora inesistente. Egli inizia così a organizzare " ciò che è prossimo e vicino", anziché limitarsi a stabilire " che cosa è", come i filosofi " obiettivi" che " lasciano tutto com'è, la cui " volontà di verità" è in tal modo " impotenza della volontà di creare "
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Nietzsche definirà le due forme di nichilismo così individuate , nichilismo passivo , la prima, le cui varianti sono il terrorismo suicidario e l'idiotismo che non resiste al male, nichilismo attivo la seconda, di cui è evidente come sia il corrispettivo nichilistico della figurazione vitalistica del superuomo.
Nichilismo passivo e nichilismo attivo assurgeranno per Nietzsche a manifestazioni principali della crisi della modernità, ed egli riteneva che avrebbero improntato il suo ed il nostro secolo a venire, costituendo il processo contemporaneo in cui i valori antinaturali integralmente si svalutano.
Di tale svalutazione degli attuali valori supremi ( il vero, il bello, il buono; la libertà, l uguaglianza, la giustizia che esaltò la civiltà moderna), in ulteriori frammenti Nietzsche individui i seguenti momenti genetici:
1) la realtà del divenire ( del dolore, della contraddizione, dell illusione) appare l unica realtà, la si vuole affermare ma non è accettata;
2) si acquisisce la consapevolezza che con il divenire non si perviene a niente, poiché il divenire non ha un fine o uno stato terminale, il cui conseguimento diventi un valore;

3) il divenire appare privo di una superiore unità cui si sia intrinsecamente connessi, in una sua progressione, essendo il divenire sempre identico a se stesso in ogni momento;
4) l'incredulità, nell'al di là di un mondo consolatorio metafisico, vero e permanente, che sia l opposto del mondo del divenire.
Si acquista così "coscienza del lungo spreco di sforzi metafisici ", e "ci si vergogna di fronte a se stessi", come se ci si fosse a lungo ingannati; ma, ugualmente " non si sopporta questo mondo che pure non si vuole negare".
Le categorie di fine, unità, essere, con cui si è cercato di introdurre il valore del mondo, ovvero uno scopo del divenire da raggiungere, un tutto che in sé opera che è un bene infinito, un mondo vero al di là di quello irreale del divenire, si dimostrano inapplicabili al mondo, " ne vengono da noi nuovamente estratte," ma anzichè svalutare questi valori e queste categorie, ed affermare la vita, l'unica realtà del divenire che annienta, chi è nichilista seguita a svalutare il mondo così com'è, per parte sua " si sono conservati i valori che condannano e nient'altro"; cosicché, ed è questa la sostanza negativa più propria del nichilismo, " non si sopporta il mondo che pure non si vuol negare".
"Non si sopporta il mondo che pure non si vuol negare": e quando Nietzsche ha definito meglio la sua stessa più intima lacerazione interiore, il nucleo energetico del suo pensiero e della sua individualità?
Nietzsche, del resto, considera se stesso il primo perfetto nichilista, che però ha già vissuto fino in fondo il nichilismo, al punto da considerarsi " un decadent e l'inizio", un suo epilogo e il principio del contromovimento conseguente.
Secondo la sua filosofia immorale della storia, solo quale esito del perfetto nichilismo, in quanto critica e svalutazione logica e psicologica dei valori della modernità, la cui necessità è data dall'essere " una logica pensata fino in fondo dei nostri grandi valori e ideali, perchè dobbiamo prima vivere il nichilismo per accorgersi di quel che fosse propriamente il valore di questi valori", subentrerebbe l' ulteriore transvalutazione dei valori, che per Nietzsche è il suo progetto finale.

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Ma nelle ultime opere pubbliche di Nietzsche, successive alla Genealogia della morale, che resta la sua opera spiritualmente più nichilistica, ossia " Il caso Wagner" " Crepuscolo degli idoli", " l'Anticristo", " Ecce homo", in contrasto con frammenti coevi, l'interpretazione del nichilismo come svalorizzazione dei valori contronaturali che non riesce a rivalorizzare la vita, - quale nichilismo passivo-, perde molto della sua rilevanza significante particolare.
Nel " Crepuscolo degli idoli" Nietzsche ne conserva soprattutto la critica delle categorie tradizionali della metafisica e della morale, in quanto ordinamento etico del mondo.
Ma se di tale nichilismo si parla ancora, è prevalentemente sotto le specie più generali del concetto di "décadence", che includendo la volontà del nulla e della fine del nichilismo passivo, assai più genericamente viene a significare ogni movimento di valori che nega la vita effettuale, il solo mondo reale dell'apparenza, in nome del mondo vero di un " al di là di valori supremi" che invece è il nulla: il cristianesimo, ovviamente, ogni ulteriore morale gregaria idealizzatrice, l'abnegazione della rinuncia e del sacrificio, la metafisica occidentale di matrice platonica, il pessimismo romantico-decadente,
L' opposizione di valori che Nietzsche riprende in tali suoi scritti, è di conseguenza quella anteriore tra valori contronaturali cristiani e valori naturali aristocratici.
Ma al contempo sembra non sussistere più, in tali opere, l 'opposizione che struttura la terza dissertazione della " Genealogia della morale", tra volontà artistica di menzogna, che celebra la vita nella sua pienezza sopraffatrice ed assoggettante, e volontà ascetica di verità, da negarsi in quanto autodiminuzione, impoverimento ed indebolimento dell’uomo che presta ancora fede al valore della verità, ignorando che la falsificazione è l'essenza di ogni interpretazione. La nuova opposizione di valori è ricondotta al contrasto tra la negatività della volontà di menzogna del prete e la positività della volontà di verità dell'uomo della conoscenza, di cui è avvenuta la transavalutazione del riconoscimento che è in grado di pensare la realtà senza più ricorrere alle falsificazioni metafisico linguistiche, rispetto alla molteplicità del reale, del mondo fittizio di soggetto, sostanza, io, ed ulteriori unità omogenee. od alla distinzione in eventi ed esistenti. In sintonia con la rivalutazione dell’uomo della conoscenza, l'arte dionisiaca è celebrata, più che come volontà di illusione e di menzogna, come volontà di apparenza, ovverosia come volontà del mondo reale del divenire, nei suoi stessi aspetti più tragici, o detto altrimenti come volontà di realtà sensibile ( cfr. ad esempio " La "ragione" nella filosofia nel " Crepuscolo degli idoli").
Come riafferma, ad esempio, nei frammenti 47, 117, e 169 del Quaderno 14 e nel " Crepuscolo degli idoli", l'arte tragica, in quanto volontà di apparenza, è la divinizzazione della vita ad opera dell'esistenza artistica, che appunto nella forme d'arte raggiunge la pienezza e la perfezione della propria forza, che è quella potenza dell'ebbrezza che l'artista al contempo suscita in chi fruisce della propria opera. La volontà di parvenza dell'arte è volontà di realtà al massimo della potenza, " significa quella stessa realtà riaffermata nella scelta, nel rafforzamento, nella correzione..."

Al contempo, in altri coevi frammenti postumi, ad pera di un'autocontraddizione irrisolta, l intuizione e l'affermazione dionisiaca della vita, il dire di sì ai suoi aspetti più problematici e tremendi, permane sussunta alla concezione della vita quale volontà di assoggettamento e di interpretazione falsificante. La volontà metafisica dello spirito di far proprio l'estraneo, di ridurre il nuovo al già noto, il molteplice all’ uno, anziché essere definitivamente negata ed oltrepassata da Nietzsche, come attualmente (1982) sostiene il pensiero della" differenza", è illimitatamente riaffermata dall'autosuperamento da egli riproposto della verità, riconosciuta di nuovo nichilisticamente nient'altro che come menzogna, finzione logica convenzionale, falsificazione continua del mondo, al servizio, nel " nuovo filosofo", della volontà di potenza gerarchica degli istinti dominanti.
E mentre in alcuni dei suoi frammenti Nietzsche afferma il necessario diritto di esistere dei deboli, e come in " Ecce homo", valorizza la ricchezza affinante della resistente debolezza, o la necessità di saper fare un buon uso delle proprie malattie ( riprendendo, come successivamente Marcel Proust, un grande tema di Pascal), in altri, esasperatamente, proclama la necessaria distruzione dei deboli, il divieto a qualsiasi cristiano di generare...
Non già il rispetto per ciò che vive ed ha vissuto, dunque, per la naturale molteplicità e differenza, o l'affermazione dell'abiezione del negativo, è dunque l'esito univoco o predominante della critica nietzscheana della metafisica e della relativa contrapposizione morale dei valori, bensì, in tali testi la riaffermazione, disvelata, della volontà metafisica di assoggettamento e di assimilazione, perpetuata dal superuomo post-moderno.
E nello stesso tempo, il frantumarsi, sotto l'incedere della sua criticità di uomo verace, di ogni possibilità di verità, sfocia nell'autocontraddizione tra il Nietzsche che ricerca onestamente e autenticamente una verità che è per il suo pensiero solo un genere di errore, ed il Nietszche che vuole "santificare" la menzogna e la violenza, mentre la veracità filologica di mite permane la sua passione umana. Certo, il pensiero di Nietzsche che ne fa, per usare le parole di Thomass Mann" il più grande critico e psicologo che l'umanità abbia conosciuto", è astringibile in tale irrisolta autocontraddizione solo usandogli la stessa violenza cui Nietzsche lo sottopose, allorché l'intuizione dionisiaca della vita che ne è la scaturigine dalla sua vulnerabilità, in contrasto con ogni forma reattiva di difesa dell'arte e della civiltà apollinea del suo tempo, fu da lui condotta all'oltranza esclusiva di una volontà di potenza vulneratrice e falsificante, il che entrò in conflitto con l'affermazione in tutta la sua positività, di quanto di debole, di inadeguato, di delicato, fu la sua più propria ricchezza reale.
Ma la palese refrattarietà, che al fine risulta, del pensiero di Nietzsche ad una sistemazione filosofica coerente, il suo essere, nella sua complessività, una rigenerazione continua di antitesi irrisolte, proprio nella sua aderenza alla contraddittorietà ed illusorietà vitale della realtà ambivalente, può considerarsi solo un limite del suo pensiero sperimentale per tentativi? O non conferisce un senso reale definitivo al suo pensiero, il senso del suo autentico nichilismo, nella cultura prenovecentesca.
In quanto la più potente testimonianza, non solo del suo tempo, dell’impotenza della veracità, se conseguente, a rendere ancora filosoficamente pensabile la vita umana.
1982- 2019




NOTA

1) LA RELIGIONE DI CRISTO
E' il frammento 11 ( 295) che costituisce l'aforisma iniziatico dell'accettazione da parte di Nietzsche dell'interpretazione della religione di Cristo formulata da Tolstoi in "La mia religione".
Ora, che cosa ha insegnato veramente Cristo secondo tale interpretazione? Che il bene è la pace dell'anima, e che il male è tutto ciò che la disturba e che le è causa di dolore, i sentimenti ostili e l odio innanzitutto. Occorre dunque recidere ogni possibilità di inimicizia, sradicare ogni risentimento, non odiare neppure il male, rifiutandosi di far guerra a se stessi e agli altri, abbracciando nei fatti e nelle parole il partito degli avversari. Gesù ha così insegnato a cercare la beatitudine della pace interiore nella libertà da ogni risentimento ( 11, 378), vivendo senza adirarsi e senza ritenere gli altri responsabili del nostro male, compatendo, perdonando, pregando anche per chi ci perseguita e ci uccide.
La sua crocifissione come un delinquente è il più forte esempio e la più forte prova della sua dottrina, la testimonianza a cui si sottopose di come ci si deve comportare verso le autorità e le leggi del mondo, rinunciando a qualsiasi forma di difesa ( 11, 295).
A Gesù era estraneo ogni concetto di peccato: egli non conosceva lo schema " caduta, infelicità, penitenza, espiazione", proprio del grado ebraico di snaturamento dell'esistenza ( II, 356), che cala nella storia la salvezza umana. Egli era infatti indifferente alla storia ed alla realtà esterna, vedeva ed ammetteva solo realtà interiori, ed intendeva il resto, la realtà naturale o sociale, solo come il segno e l'occasione di un simbolo(11, 355). Come Epicuro egli non prendeva in considerazione che la sfera spirituale simbolico-psicologica ( 11, 365, 359).
Il " regno dei cieli", pertanto, non è qualcosa che stia " sopra la terra", né qualcosa che sopraggiunge in modo cronologico, come atto conclusivo della storia ( II, 354), bensì uno "stato del cuore", un " cambiamento del modo di sentire dell 'individuo" che interviene allorché si libera da ogni risentimento, e trova la pace dell'anima, " qualcosa che viene in ogni tempo ed in ogni tempo non c'è ancora".
Il Padre ed il Figlio di Dio, come figure trinitarie, esprimono il primo tale stato di totale trasfigurazione di tutte le cose, il secondo l ingresso in tale stato ( II, 355). Anche l uomo più basso è dunque Figlio di Dio; anche l uomo più basso può sentirsi divino se ha la pace interiore ( II, 295). Dio e uomo, pertanto, non sono disgiunti l uno dall'altro; né sussiste di necessità la sfera intermedia dei miracoli ( 11, 365)
Gesù, che mirava direttamente a questo stato interiore, non ne trovava certo i mezzi nell'osservanza dell'ebraismo, cui non attribuiva alcun valore( 11, 356). Egli ha mostrato piuttosto come si debba fare per sentirsi divinizzati, per ottenere cioè la beatitudine della pace interiore, e come a ciò non si pervenga con penitenze e sacrifici di espiazione. Egli non ha insegnato formule, riti, dogmi, ma una prassi di vita per essere felici, che non è garantita da miracoli o promesse di ricompensa ( 11, 361). i suoi effetti di pace interiore ne sono la reale dimostrazione, in essi " essa stessa è in ogni attimo la prova di sè, la sua propria ricompensa, il suo proprio miracolo" ( 11, 368).
Una tale prassi, nella sua realizzazione " sradica dal popolo, dallo Stato, dalla comunità culturale, dalla giurisdizione, rifiuta l'istruzione, il sapere, l'educazione alle buone maniere, il guadagno, il commercio... recide tutto ciò che costituisce l utilità e il valore dell'uomo- segrega l uomo per una idiosincrasia del sentimento. Esso è antipolitico, antinazionale, né aggressivo né difensivo- possibile solo in una vita sociale e statale consolidata che consenta a questi santi parassiti di lussureggiare a spese degli altri... ( 11, 363). Buddhismo e cristianesimo sono religioni conclusive: al di là della cultura, della filosofia, dell'arte, dello Stato".
Ma mentre il primo buddhismo è il volersi distaccare dalla vita ch'è il frutto di una cultura raffinata ed estenuata, nella prassi di Gesù manca ogni compito, ogni motivo di porre ancora dei fini, essa non vuole niente. Tutto è già adempiuto.
Il cristianesimo, però, sviluppatosi come il grande movimento antipagano dell'antichità, ha falsificato e frainteso gli insegnamenti di tale prassi di vita di Gesù , traducendole nel linguaggio delle religioni misteriche preesistenti ( Iside, Mitra, Dioniso, la Grande Madre), già avversate da Epicuro, le religioni pagane del volgo inferiore, delle donne, degli schiavi, di classi non aristocratiche. Il linguaggio del cristianesimo originario venne volgarizzato come richiedevano i bisogni del pessimismo dei deboli, dei sofferenti, degli oppressi, che nella potenza e nella felicità dell'ideale classico della civiltà greco-romana avevano il loro nemico mortale.
Tali moltitudini del volgo inferiore, animate da un'interpretazione dell'esistenza in termini di colpa, di caduta, di castigo, di penitenza e di espiazione, da una religione pretendevano che ne confortasse la speranza in un al di là ove fossero affrancate da ogni dolore, in una vita eterna dopo la morte, a cui risorgere in virtù dell'ascetismo e della negazione del mondo, dei riti di culto in una comunità gerarchica, convalidati dall'atto di salvezza redentore di una vittima sacrificale.
Tale volgarizzazione del cristianesimo primitivo è stato un completo capovolgimento del simbolismo di Gesù.
Mentre per egli il peccato non aveva importanza, nell'esistenza dei cristiani divenne cruciale il senso di colpa ed il bisogno di espiazione. La " vera vita" che per Gesù era la beatitudine della pace interiore, divenne " la vita eterna nell'al di là", in contrapposizione alla vita colpevole e caduca nell'al di qua; e l uomo poteva farvi ingresso all'avvento del regno di Dio, inteso come atto conclusivo della storia mediante la "resurrezione" dopo la morte. Il figlio dell uomo come figlio di Dio, il rapporto filiale anche dell' uomo più basso con Dio, diveniva a sua volta la " seconda persona della divinità". Tra Dio e l uomo si aprì così l'"abisso più profondo, che solo il miracolo, solo la prostrazione del più profondo disprezzo di sé aiuta a sormontare" (11, 295; 378).
La morte inaspettata ed ignominiosa di Gesù sulla Croce, un obbrobrio riservato alla canaglia, nel suo raccapricciante paradosso fu di Gesù il sommo esempio offerto agli uomini della sua rinuncia a resistere e a difendersi, la sua più grande vittoria sui sentimenti di inimicizia e di vendetta, ma per i suoi discepoli divenne il sacrificio espiatorio dell'innocente per i peccati dei colpevoli ( 11, 378), assumendo così un senso, a prezzo del più completo fraintendimento.( 11, 278).
Non solo; essi additarono come uccisore di Gesù il loro nemico naturale, l'ebraismo dominante. E siccome si erano rivoltati contro l'ordine, intesero che anche Gesù fosse in rivolta contro di esso. Affiorò allora il meno evangelico dei sentimenti: la vendetta; si ebbe bisogno di una rivalsa e di un castigo, e fu così introdotta la teoria del giudizio e del ritorno
Di conseguenza fu giudicato cristiano ciò che nel modo più profondo andava contro lo spirito evangelico: il sacrificio, il premio e il castigo di un giudizio, l'ostilità bellica contro il male, la partecipazione alle attività civiche e civili.
" La Chiesa innanzitutto ha servito al trionfo dell'anticristiano, come lo Stato moderno, il moderno nazionalismo...la Chiesa è la barbarizzazione del cristianesimo
Ma la civiltà della cultura moderna ora consente che il cristianesimo ecclesiastico , si converta alla sua originaria vocazione, e che si adempia non solo come religione, ma come prassi di vita generale, nella purezza del suo nichilismo passivo.
" Il cristianesimo è ancora possibile in ogni momento...La maturità culturale della nostra epoca consente una cristianità senza gli assurdi dogmi del cristianesimo ecclesiastico, un ritorno alla prassi di vita di Gesù nella " perfetta indifferenza verso dogmi, culto, preti, chiesa, teologia" ( 11, 365, 368).
Noi che " viviamo nell'epoca del paragone" e che siamo l'autocoscienza della soria in genere" " mediante il confronto di ciò che è incredibilmente molteplice" "capiamo tutto, viviamo tutto, non abbiamo più conservato nessun sentimento ostile...Tutto è bene"- ci costa fatica il negare... soffriamo quando ci capita di diventare così intelligenti da prendere partito contro qualcosa... In fondo oggi noi dotti realizziamo nel modo migliore la dottrina di Cristo".
E' dunque non solo in un movimento religioso, ma nell'intera cultura che non discrimina del paragone e del confronto, nello storicismo che attualizza tutto, che si attua la realizzazione attuale del cristianesimo secolarizzato.
Se è vero che incarna una debolezza superiore, la debolezza senza risentimento di un nichilismo passivo, tale cristianesimo è pur sempre per Nietzsche il sintomo da rifiutare della stanchezza di una vita contenta in sé e per sé che non vuole più niente, " perché tutto è raggiunto per essa", il che è indice di una " mentalità povera", l'inequivocabile " segno di una razza esaurita".

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2) PER UNA PSICOCRITICA DI NIETZSCHE
La coazione alla scrittura come critica interminabile dei valori del proprio tempo attesta la predominanza in Nietzsche dei valori stessi di onestà e di veracità, propri della cultura stessa realista e positivista del suo tempo , che in larga parte dei suoi frammenti denigra, oppure esercita contro se stesso.
In tal senso, la sua necessità ossessiva della scrittura, volta a reiterare l'autodissoluzione della morale e della verità, può essere intesa come una formazione reattiva di difesa dagli scrupoli delle sue formazioni mentali dominanti di dotto filologo.
Per queste ragioni, suppongo, Nietzsche è uno scrittore triste, un autore reattivo, agito da un sentimento costante di risentimento, per cui, nel nome dell' Io ideale legislatore del Superuomo, che è la sua identificazione eroica, cerca di perpetuare la vendetta contro l'irriducibile suo Super-Io del dotto filologo, l'uomo di conoscenza intellettuale.
Ed è per tale dominante reattiva, è da presumersi, che Nietzsche fu incapace della "libertà" del grande stile dionisiaco cui mirava.
Nietzsche, infatti, rispetto all' Io ideale del superuomo che lo soggioga psichicamente, nonostante sublimi le sue stesse malattie, non è che un inadeguato, un debole, un malriuscito, e fu solo proiettando verso l'esterno l'odio ed il disprezzo di sé medesimo, esasperato dalla sua solitudine, verso il gregge gregario dei mediocri, ed identificandosi con tale grado di esaltazione con il mitico aggressore- il tipo dominante in avvenire del superuomo- è stato in grado di sopportare se medesimo fino al crollo finale. Di fatti, tranne forse nei frammenti e nei testi dell'"Anticristo", la sua scrittura nei confronti dei deboli e dei miseri è animata dallo stesso risentimento e rancore che i deboli ed i malriusciti delle sue analisi nutrono nei confronti dei forti: una reattività che secondo la sua stessa psicologia, è sintomo della incapacità di conseguire la potenza e la superiorità su ciò che ci si para dinnanzi.





PAGINE REMOTE

Quella casa immersa nella macchia, eppure dentro la città, il cui ingresso bizzarramente coincide con una piccola cucina e dà accesso ad un primo corridoio libreria che incrocia altri corridoi libreria, interrotti di tanto in tanto da porte chiuse, e in fondo lo studiolo che affaccia con una ampia vetrata sul prato di quadrifogli, la conosce, anche se non l’ha mai vista.
Ma certo, l’ha sognata tanto tempo prima e ora si trova sul piccolo viale di ingresso e sta per entrare, perché ha appuntamento con il suo professore per l’ultimo colloquio prima della sessione di laurea.
Mentre lui entra esce il suo amico e collega Oscar, anche lui laureando con una tesi sul concetto di stato in Hobbes e Rousseau, con la testa reclinata, ma non è cosa insolita, e gli occhi lucidi di rabbia.
Un saluto furtivo e una fuga verso la collina in direzione della città, perché quel luogo è come se fosse fuori, anche se è proprio a ridosso del centro storico e mentre sta per lasciare alle spalle la curva del viale getta con stizza qualcosa sulla siepe alla sua sinistra.

---- Il congedo è traumatico, ma i piedi sono leggeri sul selciato per uscire dalla casa del professore, poi si ferma sulla curva del viale e vede un quaderno strappato, lo prende in mano e legge la prima pagina, il cui capoverso ha per titolo Appunti scherzosi, ma non troppo, sull’anticomunismo di Marx di Oscar Bentivoglio.
Resta fermo, i piedi sembrano incollati a terra, non riesce a muovere un passo, un nauseante senso di vuoto sale dallo stomaco e in preda a conati di vomito si sveglia con un salto sul letto e vede la prima luce dell’alba.

Alba livida
La fuga verso la sua vita precedente a Firenze, conclusasi con il sogno dell’ultimo incontro prima della tesi con il suo vecchio professore, ormai morto da quasi vent’anni, e soprattutto l’intrusione nel sogno del suo caro, amato collega di studi e amico Oscar
....
Oscar era un ragazzo di campagna del nord, timido e impacciato, con una leggera balbuzie e una inclinazione alla introspezione, grande camminatore diurno e notturno, cultore dello studio solitario.
Non partecipava ai lavori di gruppo all’Università e restava appartato nelle assemblee, che frequentava con evidente interesse, ma senza intervenire.
*** immerso nella lettura del Capitale di Marx, argomento che aveva scelto per la tesi, sente il suono del campanello e va ad aprire piuttosto seccato.
Sulla soglia vede Oscar, che ha solo incontrato in facoltà e mai frequentato fuori dagli orari delle lezioni e, trattenendo un moto di sorpresa, lo invita ad entrare e gli offre il caffè appena fatto.
Oscar si dirige subito verso la libreria e mentre *** versa il caffè passa in rassegna i libri di *** , molto Marx ovviamente, Gramsci, Hegel, Freud, Simmel, Weber, Kant, Spinoza, Hobbes, Rousseau, Platone, Aristotele, Nietzsche, Kierkegaard, Goethe, Dostoevskji, Tolstoi, Balzac, Mann, Kafka, Leopardi, Dante, Ariosto e altri libri di formazione e di studio, respira un’aria di famiglia, ma percepisce un anello mancante nel bagaglio formativo di ***
Tutto questo avviene nella frazione di un minuto e costituisce ( da parte di Oscar) il primo assaggio di conoscenza diretta di una persona che ha visto muoversi con disinvoltura in facoltà e di cui ha apprezzato la brillantezza nelle assemblee, ma del quale ha percepito una intima timidezza e una profonda differenza da altri studenti in esercizio di leadership che emanavano sicurezza in ogni poro della pelle.
Ha avvertito una istintiva curiosità verso un diverso che gli appariva simile e ha avuto molte volte la tentazione di fermarlo in facoltà, ma senza mai risolversi e ora ha sentito quasi l’urgenza di incontrarlo e si trova nella sua casa, di fronte alla libreria, in attesa di prendere un caffè.
E’ incuriosito e meravigliato per non aver trovato tra i suoi libri Pasolini, Moravia, Elsa Morante, Calvino, Parise, Camus, Sartre, e tanti altri autori contemporanei o appena scomparsi e così, senza alcun preambolo gli chiede come mai non ci sia traccia di Pasolini nella sua libreria.
***gli risponde, “ ma è ovvio, è morto da troppo poco tempo, non vedi che i miei autori sono tutti morti da tanto tempo?
Ti sembrerà strano, ma ho bisogno di mettere tra me e i miei autori la distanza e la sanzione critica del tempo, perché non posseggo la capacità di scegliere tra i miei contemporanei e allora aspetto che sia il tempo ad aiutarmi a decidere chi leggere.
Una risposta brillante e consona ( per Oscar) all’idea che ha di *** , ma che rafforza la sensazione di uno scarto non colmato, quasi una paura del presente che tradisce un sentimento di inadeguatezza e di indeterminazione.
“ La tua risposta ti fa manifesto di una nobiltà intellettuale presunta e Dante avrebbe potuto rimproverarti un peccato di superbia, replica celiando Oscar, perché temo che il vaglio critico che chiedi al tempo equivale ad una sospensione del giudizio sui tuoi contemporanei, come se non meritassero la tua attenzione, ma dimentichi che i contemporanei ti comprendono. Così sospendi di fatto il giudizio su te stesso, che, per fortuna, sei ancora un contemporaneo parlante e non ancora scrivente”.
“Non per molto Oscar, perché dovrò pur scrivere la tesi di laurea e, acuto osservatore quale sei, avrai visto dai libri sul tavolo che sto studiando Marx e, credimi, per quanto morto da più di un secolo è vivo più che mai e leggendolo capisco quello che accade ora molto di più che leggendo i tanti o forse tutti i libri dei sofisticati contemporanei, tra i quali tu forse avverti l’amor che move il cielo e l’altre stelle”.
“Caro *** pensi che, pur essendo(io) ateo, come credo anche tu sia, confonda la gloria di colui che tutto move con chi non cerca ormai nemmeno allori ma solo ori?
Mi immagini sprofondato sulla contemporaneità e negatore della classicità?
Ma ora basta con questa schermaglia di abusate citazioni e scusami per averla provocata alludendo a Dante, sommo per i posteri ed esule in vita, e parliamo da vecchi amici, anche se ci conosciamo solo ora, perché io ti ho scelto come amico e mi piacerebbe che tu accettassi la mia dichiarazione di amicizia.
Il tuo riferimento ai morti ha stuzzicato la mia vena ironica, ma era solo un modo per introdurre la mia dichiarazione di amicizia tramite i versi di un poeta contemporaneo che non è contemplato nella tua libreria, Sandro Penna, perugino di nascita, romano di adozione e solitario per elezione.
Penna è morto da pochi anni, è stato nostro contemporaneo, ma da qualunque verso lo prendi ti parla con la voce della classicità e con parole semplici evoca misteri antichi.

“Felice chi è diverso/ essendo egli diverso./ Ma guai a chi è diverso/ essendo egli comune.”
Versi semplici, immediati, tautologici, che pure alludono ad un mistero e annichiliscono quintali di dibattito sulla diversità.
Io sono sicuramente diverso, ma non so se sono anche comune, mentre so che tu non sei comune e sei diverso non essendo diverso.
In questi versi c’è tutta la perfidia di Penna, riversata sui diversi e sui comuni e l’affermazione di chi Penna è, diverso e non comune, ma chiunque è implicato in questa classificazione legislativa come direbbe Cesare Garboli.
Noi non ci conosciamo, ma io ti ho osservato e ricordando i versi di Penna ho pensato che potevi essere un fratello, un fratello diverso, non omosessuale ma in qualche modo diverso dai nostri comuni compagni di università.
Penna ha vissuto la sua omosessualità e più precisamente la sua pederastia come una legge di natura, della quale non ci si può né vergognare né inorgoglire, e in tutte le sue poesie ha cantato i fanciulli e la natura, la natura di cui è prigioniero e abitante e i fanciulli che ne sono l’espressione più bella e desiderabile.
Tutto il resto è noia.
“Sogno fanciulli nelle mie poesie! / Ma io non so parlare d’altre cose. / Le altre sono tutte noiose. / Io non posso cantarvi Opere Pie.”
Quanta leggerezza e quanta gravità in questi versi!
La nudità dei fanciulli, sempre immaginata tra sole e penombre, la nudità delle parole, semplici e mai retoriche, compongono gran parte dell’universo di Sandro Penna, che scrive con gli occhi la sua dolce ossessione.
Anch’io sono dentro questa ossessione, amo i fanciulli e non oso parlarne, anch’io come Penna ne sono prigioniero e tutto in me si moltiplica e si complica in una sospensione ipertrofica di ansia e desiderio. Capisci la differenza abissale tra il mio sguardo che si posa su un fanciullo e il tuo che incrocia quello di una fanciulla? Il mio nasce incandescente e muore pudico, si trasforma nel percorso e spesso retrocede, mentre il tuo può essere spavaldo o timido, può interrogarsi sul gradimento, ma non nasce, come il mio, da un mistero che inquieta sempre il soggetto e l’oggetto.
Noi omosessuali felici, oso accomunarmi a Penna, cuciamo con la nostra pelle il tessuto di seta con il quale copriamo il fanciullo amato e quella dolcezza che ne deriva risente sempre di una ferita che non si rimargina, poiché è essa stessa che alimenta qualsiasi possibile felicità.
Noi felici come Penna estraiamo ogni trionfo dall’umiliazione, che è nostra fedele compagna e solo chi ha avuto confidenza con l’umiliazione può capire l’impossibilità di distinguere lacrime di gioia e lacrime di dolore, perché tutto si aggroviglia nell’oscurità che ci lavora dentro.
Tanto limpido e puro è il nostro desiderio, altrettanto oscura è la fonte che lo genera. Sono venuto a confidarmi con te e, in qualche modo, ad affidarmi, per contrastare la tentazione di amarti.
Posso non aver capito nulla e allora avrò provocato il tuo disgusto e questo mi aiuterà a inabissare il potenziale amore, oppure, sempre nell’ipotesi che non abbia capito nulla, potrai sorprendermi con una fratellanza nel medesimo tipo di amore, ma, spero, in ogni caso, sia possibile esserti amico.”.
“Caro Oscar sono molto più comune di quanto pensi e sono felice di poterti essere amico. Anch’io ti ho osservato nei tuoi impacci e disinvolture, nel tuo passo apollineo e nel tuo volto dionisiaco, nell’incedere sicuro dei piedi che danzano sul lastricato dei corridoi universitari e nella propensione a nasconderti, sempre in fondo nelle assemblee e nelle ultime file a lezione, ho anche percepito la densità dei tuoi silenzi e l’incombere su di te di una persistente esitazione che nulla ha a che fare con un senso di inadeguatezza, ma forse con una irrequietezza soccombente.
Non ricordo esattamente con chi, ma mi è capitato di alludere a te figurandoti a mezzo tra le atmosfere di un grande ed eccentrico scrittore come Thomas Bernhard e l’idiota di Dostoevskji, il buono senza aggettivi ovvero il Principe Myskin, l’uomo che prendeva tutto sul serio e non conosceva la diffidenza.
Non mi sbagliavo poi di tanto, posso dire ora, dopo la tua dichiarazione di amicizia, giocata come una scommessa senza fondamento e affidata alla mia sensibilità.
Neanche tu ti sbagliavi nel confidare su di me, perché è una qualità che mi riconosco la capacità di ascoltare e la grande elasticità nel comprendere, che non è solo una modalità dell’apertura, ma anche una astuzia per nutrirmi della vita degli altri e sopperire ad una congenita mancanza di fantasia.
Tu hai interpretato come una forma di aristocrazia intellettuale il mio tenermi lontano dai contemporanei, ma ti sbagli e al riguardo ti è sfuggito che almeno un contemporaneo c’è nella mia libreria ed è Thomas Bernhard, e la ragione per cui lo conosco è molto banale a mio danno, perché ha solo a che fare con la moda degli scrittori mitteleuropei contagiata dall’editore Adelphi a molti studenti come me e te, mentre per quanto riguarda Penna poi è ancora peggio, perché me ne ha parlato molto un mio amico di Perugia e io mi sono rifiutato di leggerlo perché ho pensato ad una forma di provincialismo del mio amico, che mi suggeriva un poeta suo conterraneo e, non avendo consuetudine con altri contemporanei, non ho avuto il modo e soprattutto la curiosità di informarmi su di lui, che come apprendo oggi da te è un grande e forse il più grande poeta del novecento.
Come vedi sono molto più assimilabile al comune che al diverso di cui parla Penna nei versi che mi hai citato e forse la definizione che più mi si adatta, nel linguaggio che prendo in prestito da Penna, è di essere un comune aperto al diverso, che è fino in fondo comune e quindi alla fine semplice e la semplicità lo ricollega al diverso, perché nella semplicità c’è anche l’affinità con l’autenticità e io in te riconosco, o forse meglio penso di riconoscere la prigionia dell’autenticità, che ti rende diverso tra i tuoi stessi affini diversi.
Scusami se mi permetto, ma siamo già vecchi amici, come hai appena detto, e quindi posso dirti che se ripenso alla tua andatura spavalda nei corridoi dell’Università non mi figuro la tesa camminata dell’atleta, ma l’accelerazione dell’andatura di un bove stanco, che ha negli occhi la liquida malinconia della stanchezza.
Chissà perché ti ho sempre associato alla stanchezza, quasi vedessi in te lo stremo fisico e intellettuale rivelato dagli occhi e nascosto dal passo di danza.
La tua omosessualità non mi imbarazza affatto, ma questo lo davi per scontato, e la tua dichiarazione di amicizia, pudica e subdola, mi mette alla prova perché non sarà facile tenere insieme, distinte e unite, le parole che esprimono amicizia da quelle che trasudano amore, accogliere le une e trascurare le altre, ricambiarti come amico e rifiutare il tuo amore, oppure dilatare l’amicizia fino a comprendere il tuo amore sublimato, perché se sublimare potrà essere facile per te nel rapporto con le tue pulsioni, molto più complicato sarà per me raccogliere senza imbarazzo le tue pulsioni erotiche deviate verso la sublimazione amicale, essere permeabile come amico e impermeabile come amato e come potrò abbracciarti con lo slancio sincero dell’amico senza temere il desiderio dell’amante?
Ma come posso sfuggire alla tentazione di esserti amico? “
“Vedo che rilanci la mia tentazione di amarti – interviene Oscar - nella tua tentazione di amicarti con me e le collochi, le due tentazioni, giocando un po’ con la dialettica dei distinti del rimpianto Don Benedetto Croce, sul terreno sdrucciolevole dell’ambiguità e dell’ambivalenza, entro i confini fluidi dell’ironia borghese, che potrebbe consentirci una distanza erotica vitale ma non vissuta, entro una vicinanza amicale vissuta, ma non vitale. Ma non capisci che supero dialetticamente, ma con Hegel e non con Croce, la tentazione di amarti essendoti amico e in quel superamento non c’è più traccia del malmostoso amore di cui è impastata tutta la mia vita erotica?
L’amore che provo per te è la mia amicizia e non c’è più la pulsione originaria che l’ha generata, perché altrimenti non potrei esserti amico rimanendo un amante dimidiato.
Caro abbracciami e non temere il desiderio dell’amante, ma semmai i doni subdoli dell’amico, perché ora ti lascio ai tuoi studi marxiani e permettimi di regalarti questi appunti scherzosi sull’anticomunismo di Marx, che ho scritto seguendo il mio istinto intellettuale, perverso non meno del mio istinto sessuale. A presto e fammi sapere cosa ne pensi.
……………………………………………………..
Oscar si laurea con centodieci senza lode, mentre ***oltre al massimo dei voti, lode, bacio accademico e pubblicazione della tesi ottiene la strada spianata per l’ingresso nella ricerca universitaria.
***rimasto nella città universitaria per iniziare la sua carriera e Oscar nella sua triste e grigia città di campagna del profondo nord a iniziare la sua lenta agonia di insegnante di periferia.
Ora il ricordo brucia e non gli consente di intenerirsi di fronte al giovane studente che fu e agli ardori fisici e intellettuali di una lontana stagione della sua vita, ,….regalata per amore da un amico fragile e geniale.


BIBLIOGRAFIA MINIMA

Karl Marx , Il Capitale. Critica dell’economia politica Torino : G. Einaudi, 1975. - 5 v. - Roma : Editori Riuniti. - v.
Karl Marx Lineamenti fondamentali di critica dell’economia politica, 1857-58, Firenze, La Nuova Italia, 1968, Torino Einaudi, 1976
Karl Marx Critica al programma di Gotha Mosca : Edizioni in lingue estere, 1947., Bordeaux, ed , 2018
Cesare Luporini Dialettica e Materialismo, Roma, Editori Riuniti , 1978,
Antonio Gramsci Quaderni dal Carcere , Torino : G. Einaudi, 1975. - 4 volumi
Roma : Editori Riuniti, 1991. - 6 volumi

Friedrich Nietzsche Opere 1870-1881 Roma, Newton Compton 1996
Opere 1882-1895, Roma, Newton Comton 1996
Mazzino Montinari Nietzsche , Roma : Editori Riuniti, 1996





L’AUTORE

Odorico Bergamaschi nasce nel 1952 a San Giacomo delle Segnate in provincia di Mantova. Si è laureato in Filosofia morale con Cesare Luporini, sostenendo una tesi su Superstizione Etica Filosofia e Politica nel Pensiero di Spinoza. Dal 2005 i suoi itinerari di viaggio, esistenziali e spirituali, letterari e di storico dell’arte si sono concentrati in India, dove dal 2012 vive la maggior parte del suo tempo residuo.





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Odorico Bergamaschi, La critica della modernità capitalistico-borghese in Marx, Gramsci e Nietzsche
Mantova 2019




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