domenica 4 gennaio 2015

in viaggio con Ajay, ad Ajaygarh, Kalinjar

Con Ajay ho lasciato Khajuraho in autorickshaw che non erano ancora le dieci del mattino del 26 di dicembre,  per raggiungere Bamitha e prendervi un autobus per Panna e da Panna per Ajaiygarh.
La nebbia  dei giorni precedenti non era ricomparsa sul fare del giorno,  e il sole  fin dalle prime ore mattutine era propizio al viaggio nel suo splendore
La sera precedente alla presenza di papà Kailash  gli avevo chiesto di ribadirmi se era davvero intenzionato a venire al mio seguito,  come gli avevo lasciato intravedere che si rendeva possibile per l intercorrere delle sue vacanze natalizie. Ed egli aveva  confermato che non attendeva altro. Il mio comportamento ora  dolcemente amorevole ora aspramente irascibile nei suoi riguardi non era valso a dissuaderlo dall’avventurarsi  in mia compagnia,  esponendosi ai miei eccessi senili d’opposto tenore.  Già in Bamitha potevo avvertire le prime  avvisaglie delle mie prevenzioni nei suoi riguardi, quando mi anticipava preveniva nel rifiutare di salire su di un autobus costipato di passeggeri,  ricorrendo al  quale saremmo stati obbligati a rimanere in piedi fino a Panna. Non è che avrebbe fatto di nuovo il signorino che in India si rifiuta di sostenere ogni incomodo, come già era avvenuto in Allahabad, l’anno scorso, o già due anni or sono, più non ricordo bene, quando non c’era stato verso di  farlo salire sull’autobus per Rewa ch’era   sovraffollato già alla partenza.
Poi tutto è proceduto per il meglio sino all’arrivo in Ajaigarh,  lungo il meraviglioso percorso dei tornanti che traversano il Parco Nazionale di Panna recando nel centro in altura della cittadina, ne discendono tra le piante di tek delle boscaglie adiacenti, divallando nel verde smagliante dei coltivi invernali. Nè ci riservava asperità la salita al forte che affrontavo di nuovo a oltre due anni di distanza, dopo averla sostenuta con Kailash in una radiosa domenica d’ottobre, rallentato nel cimento dalla sua stessa refrattarietà a sostenerne lo sforzo. Certo Ajay aveva più lena del padre, ma ugualmente gli rimaneva estranea ogni sollecitudine ad alleviarmene lo sforzo, sgravandomi del mio bagaglio o precedendomi avanti. Ricomparivano le porte del forte, le incisioni rupestri, il Ganesha volante con ascia e dolci laddu  sorbiti con la proboscide, la coppia di divinità, che essendo fiancheggiata da Ganesha e da un dio su un pavone in cui era ravvisabile l’altro loro figlio Kartikkeya,  insegnavo a Ajay  ad identificare in Shiva e Parvati. Entrati nel forte, si faceva una dura reminiscenza il tratto di pietraia che dovevo ripercorrere prima che il  cammino alleviasse le sue ruvidità e si appianasse, inoltrandoci in una radura della foresta collinare. Soccorrevano le indicazioni dei rari viandanti del luogo, donne e giovinette e ragazzi  gravati dai carichi di sterpi di legna che avevano affastellato,  le tracce segnaletiche del percorso da seguire, tenendo la destra e poi verticalizzando, che insieme ai cippi di pietrisco erano costituite dalle bustine di gutka di cui era disseminato il percorso principale. Rieccoci così in vista del bacino lacustre scavato nella roccia del talab di alcuni templi di culto di un passato prossimo, dell’amalaka  frammentata al suolo  la cui immagine avevo  appena eletta a visualizzazione inaugurale del sito web del bapuculturaltours.
Avendo dimenticato che la cancellata d’accesso al sito dei templi la si raggiungeva dall’ altezza sulla destra dei resti di una porta dirupata, vi pervenivo per la stessa via da cui vi ero giunto la volta precedente con Kailash,  sempre sulla destra inoltrandomi di lato al talab nella boscaglia di tek, fino a raggiungere la recinzione che anche per la mia mole presentava un agevole varco.
La vista dei  templi , nel loro splendido isolamento nella giungla, era un’apparizione di nuovo emozionante,   la cui fascinazione era  temperata dalle mie accresciute capacità di indagine visiva, che mi consentivano di rilevarne istantaneamente le peculiarità che già mi avevano strabiliato la prima volta, per quanto li differenziavano dai templi Chandella di Khajuraho: l’ammanto  statuario ridotto ai minimi termini  delle effigi che figuravano nelle proiezioni superstiti delle pareti esterne del santuario e nel portale che vi dà accesso, l’ornamentazione proliferante in loro vece, con il motivo ricorrente e non rinvenibile in alcun tempio in Khajuraho delle hamsas od oche allineate in fila, simbolo eminente delle anime sospese tra la terra di questo mondo e il cielo della nostra destinazione divina. I due templi che precedono quello di cui resta solo  il nucleo di pietra del santuario e del sikkara,  insieme con il portale soggiacente d’accesso alla cella, apparivano due variazioni di una stessa tipologia, con la differenza nel secondo, che come non si dà mai in Khajuraho, ma già nel tempio Rahila di Mahoba,  od in quelli di Vyas Badora, due ingressi laterali  si sostituivano alle proiezioni dei due balconi laterali della grande  sala- o mandapa -del primo tempio,  che  apparivano inusualmente privi dello schienale inclinato della kakshasana,  d’obbligo nella  loro ricorrenza in Khajuraho. Solo quando pervenivamo all ultimo tempio, e già erano le cinque pomeridiane, Ajay che mi aveva quietamente assecondato , sollecitato dai quesiti e dalle questioni interpretative che gli ponevo, mostrava le sue apprensioni data l’ ora che si faceva tarda, per poter prendere un autobus di rientro in Panna, tanto più  che avremmo dovuto ripercorrere l’area del forte e l intera discesa da esso, prima di ritrovarci nelle ultime propaggini a valle dell’abitato di Ajaygar, ed ancor più se da Panna avessimo ancora inteso essere di ritorno in Khajuraho sul far della notte.
Ma negli ultimi  bagliori del tramonto erano troppo  incantevoli le modanature in cui erano integralmente tornite le costolature delle proiezioni del tempio, per lasciarlo tempestivamente, e  non celebrarvi l’agnizione grandiosa che vi aveva compiuto Kailash, quando  negli interni a più piani, irrintracciabili  nei templi di Khajuraho, aveva rinvenuto la stessa compagine dei templi  gemini Shas Bahu di Gwalior,  la città dei Kacchapagatha divenuti a loro tempo tributari feudali dei Chandella, cui rinviavano come  sua simbologia eponima   le stesse hamsa dei primi due  purana mandir del forte, in un contraccambio reso alle signorie sottomesse che ne sussumeva le forme templari.
Rinviavo Ajay indietro sui nostri passi di ritorno dal cancello principale , a sincerarsi presso il guardiano che stavano chiudendo l’ingresso che  tutti i templi fossero shivaiti, come avevo presunto, e come temevo aveva per me inizio il tormentio della discesa, le ginocchia che era come si disossassero ad ogni scoscendimento della pietraia, ai gradini impervi che risalivano al vecchio forte,  Ajay  che ora mi precedeva leggero , senza mai volgersi indietro, con il solo onere dei viveri rimasti, di tanto in tanto con la luce del cellulare mostrandomi i  gradini lungo i quali arrancavo o ricercandone la numerazione che gli richiedevo di indicarmi quale termine per me di sollievo, per poi soffermarsi in attesa senza che gli passasse minimamente per la testa di recarmi aiuto ed alleviare la mia sofferenza con il suo sostegno corporeo o facendosi carico del mio zaino,  esattamente come suo padre, pronto finanche a raggiungermi in Delhi al mio arrivo, se gli manifestavo le mie difficoltà di raggiungerlo in India con il mio carico finanche sestuplo di bagagli, ma poi lasciando ogni volta che gravassero sulle mie spalle i fardelli più immani
Ma non erano ancora le 18,30 quanto aveva termine la discesa, e in mezz’ora, prima delle sette, quando un autobus sarebbe stato in partenza per Panna, secondo quanto Kailash ci aveva detto al cellulare di ricordarsi,  c’era modo di arrivare alla stazione degli autobus, grazie anche a una scorciatoia di cui mi ricordavo, per uno spiazzo in cui immettevano alcuni gradini  nel buio che mi era faticoso discendere, mentre si perdeva nel  vuoto il mio grido ad Ajay, più che un richiamo,  che indugiasse un poco in mia attesa, essendo egli in ascolto solo del passante che ci stava accompagnando.
La luna illuminava un cobra che giaceva morto  nella polvere del  cortile , cui io soltanto sembravo fare caso.
Giunti nello spiazzo dell’autostazione, sollecitavo a Ajay  a richiedere intanto  in hindi  quale autobus fosse in partenza per Panna, mancando meno di una decina di minuti alle sette, ed egli  si accingeva certo a farlo, ma senza  trasmettermi  le informazione ricevuta che su mia sollecitazione nervosa, e in spezzoni frammentari, tanto meno ingrossare il suo filo di voce in ragione della mia sordità, solo su mia istanza .
“ E  quest’autobus?”
“ Non parte per Panna”.
“ E dov’è l’autobus in partenza per Panna?”
“ E’ quello”
“ Allora andiamoci. E perché ora non ti dai da fare a salirci?
“ E in partenza alle 8, 10”.
Anche in questa era consimile a suo padre, che quanto volte mi ha contrariato perché  riservava per se stesso per decidere per  suo conto e di testa sua  le informazioni che per comodità chiedevo a lui di richiedere in hindi, per agevolarmi presso le popolazioni locali che ignoravano l inglese o avevano con esso scarsa dimestichezza..
Inoltre avevo modo di contrariarmi ancora di più perchè stava iniziando a procedere per disposizioni le poche volte che di sua iniziativa seguitava a dirmi qualcosa, sempre in conformità agli usi paterni e alle costumanze degli indiani in genere, con chi è altro da loro, di parlare solo per ordini impartiti, anche chi è sudra o dalit sentendosi un bramino o un raja con chi è null’altro di meno che uno straniero
Nell’attesa della partenza chiedevo ad Ajay di aiutarmi a ricorrere al  più affidabile  dei locali che servivano  somosa e pokora, cercando di  rifarci a quelli più dissimili da un’antro fuligginoso preceduto da una fornace infuocata tra la sporcizia antistante, seguisse  quale criterio che li imbandissero ancora caldi, o li stessero friggendo, solo che mi dava il modo di riprenderlo con astio perché per sincerarsi aveva cominciato a tastare con le mani gli involti sui tavolati, prima che mi precedesse proprio presso il gestore di una di quelle cavità cavernose,  che stava soffriggendo la   pastella che Ajay aveva già ordinato con il suo ripieno e contorno . Erano buoni in verità  gli snacks, e potevamo sederci su una panca in attesa, mentre alla fucina annerita alle sue spalle un giovane ci stava  recando una tazza di the miscelato con il latte, solo prima che indisturbate dalle grida di richiamo e di allontanamento, una vacca, una seconda e poi una terza, avessero modo di  servirsi dei somosa  che il friggitore  si rassegnava a lasciare esposti, dopo averne messo via un primo involto.
I miei intenti sublimatori ne traevano ancor più lena ad esercitarsi, e ad Ajay lasciavo la scelta risolutiva, a dispetto di ogni inavvertenza, inosservanza, impertinenza, o inottemperanza, che avesse l ultima parola, sulla decisione se restare a Panna in hotel,  per  ripartirne l indomani verso Kalinjar, o se tentarvi il rientro in Khajuraho quella notte stessa. E con mio dispetto decideva di ripiegare quanto prima verso casa.  Con la clausola, però. che l’autobus per Khajuraho fosse in partenza al nostro stesso arrivo nell’autostazione di Panna.  A onore del vero non c’è partnership, o condivisione, che io non  sostenga senza remore e ritrosie se non  fa proprio il mio punto di vista, così avvertivo Kailash della volontà del figlio, per fargli presente quanto fosse difficile dopo le 22, 30 trovare autorickshaw che dalla fermata intermedia di Bamitha  conducessero a quell’ora in Khajuraho.
Al nostro arrivo in Pasnna con lo stesso autobus che avevo già preso con Kailash la volta precedente, in direzione di Jabalpur, troncava ogni residua velleità di questione che venissimo a sapere che solo alla mezzanotte restava ancora in partenza un autobus diretto a Bamitha , Chhatarpur, per raggiungere Indoore l indomani.
In hotel, occupata la stanza, lasciavo che il caro Ajay trafficasse in bagno a simulare di lavarsi almeno un poco nella sua straordinaria  bellezza,  contento che si togliesse i guanti  che usa d’inverno per ogni circostanza, e si lavasse le mani in mia presenza.
Chicken curry, muttar paneeer le nostre ordinazioni, prima di assopirci all’istante nei nostri rispettivi letti, infreddoliti e bramosi di tepore.
Il mattino seguente era brumoso e solatio, e  nella sua radiosità avrei voluto attardarmi  nel Raja-Laxmi hotel,  alla vista dei templi di Panna sovrastanti il suo giardino alberato, assaporandovi la memoria delle mie precedenti soste in cui vi avevo soggiornato da solo od in compagnia di Kailash,  ed ogni volta  l’incanto del viaggio e del permanervi in India vi era risorto, ma non avessi indotto Ajay a limitarsi solo a bere un the, avremmo perso l auto che alle nove precise è partito per Ajaygarh, dove alle 10,30 ha iniziato la sua corsa quello per Kalinjar, dove siamo arrivati solo a mezzogiorno.
Pervenirvi è stato lo stesso con il  discendervi ad un  grado di  incivilimento materiale  inferiore, che in India sembra corrispondere infallibilmente alla rilevanza nel passato di siti di stupa e templi prestigiosi o ancor splendidi e inespugnabili forti, contro i quali condussero le loro invincibili armate o persero la loro vita condottieri quali Mahamud Gazhni o Sher shah Shur, una stato deprimente delle cose che vi  rendeva difficoltoso o proibitivo reperire anche acqua in bottiglia e pokora o somosa, ed  alimentava solo voci discordi o   inattendibili sulle nostre precarie prospettive itineranti lungo il dissesto stradale
Non circolavano autorickshaw in Kalinjar, tanto meno per il forte, anzi si, ma non ci sarebbe costato meno di 6.00 rupie,  per una distanza che si dipanava tra almeno sette o solo quattro chilometri , e  quanto agli autobus di ritorno in Ajaygarh, c’era chi sosteneva che l ultimo fosse alle 16, 00 chi ne differiva la partenza alle sedici e trenta, non più tardi, comunque,  il che, calcolato un tempo di ascesa forzata a piedi di non meno di un’ora e mezza e una durata della discesa per il rientro non inferiore, riduceva a poco più di mezzora il tempo che dovevamo riservare alla sola visita del tempio a Shiva Nilakanteshwara.
E non v’erano soluzioni di ripiego in Kalinjar, se non avessimo potuto fare rientro con l’autobus in Ajaygarh, dato che non v’era alcuna possibilità di alloggiarci in alcuna struttura ricettiva, che non fosse una rest house dislocata nella fortezza, e  che non mi restavano che poco più di mille rupie per essere di ritorno in  Khajuraho, confidavo quella sera stessa.
Nel passaporto avevo ritrovato una mia carta di credito, ma nessuno sapeva di atm in Kaklinjar, ed era dubbio se mi fosse stato possibile utilizzarla fuori di un grande centro abitato, dove è difficile che affluiscano i darti che ne autorizzano l impiego.
Cosi stando le cose non mi restava in ogni caso che avviarmi subito con Ajay lungo l’erta asfaltata che recava al forte, ch’era più lunga delle ascese per scalini ma che ci evitava l’affaticamento lungo le loro rampe,  sopendo ogni tacita renitenza di Ajay,  alla prospettiva di dovercisi avventurare forse per non meno di sette chilometri all’andata e altrettanti al ritorno. La speranza era che qualche motociclista o autista di passaggio ci recasse soccorso, abbreviandoci i tempi di percorrenza.
Di nuovo mi stavo frustrando nel frustrare la sua presunta tendenza al facile e comodo, e quando un motociclista ci offriva un passaggio fino alla deviazione che ascendeva alla qila, rifiutavo la sua offerta di condurci fino al suo ingresso di li a poco, credendo di dovermene poi duramente pentire di li a poco, quando mi sarei ritrovato ancora all’inizio dell’erta ,  dopo oltre mezz’ora di cammino, spossato sotto lo zaino,  con Ajay sempre e soltanto al mio seguito, senza che il tornante superiore apparisse risolutivo.
Imperterrito seguitavo confidando comunque, in capo a una svolta ulteriore dei giovani ciclisti che intercettavamo ci dicevano che non restavano più di due chilometri, che si dilungavano a quattro secondo la diceria cui cercavo di non prestare ascolto di un altro interpellato, pur se un lungo tornante sembrava condurre all’altra estremità delle mura sovrastanti, finché una svolta si faceva risolutiva e ci immetteva di lì a poco dentro la cinta muraria del forte.
Chiedevo all’ imperterrito Ajay quanti chilometri di ascesa avessimo percorso secondo i suoi calcoli, non più di quattro secondo il mio stesso calcolo, solo che tutti i computi tornavamo a collimare per il protrarsi estenuante, dati i tempi ridotti a nostra disposizione, del camminamento ripido all’interno del forte che ci restava da compiere per raggiungere il tempio, che sapevo posto sotto le mura all’altra estremità della sua  vasta estensione. Un uomo che intercettavamo mentre procedeva in bicicletta sotto l suo fascio di sterpi ci riservava ancora due chilometri a piedi per essere all’altezza del tempio, di cui era una vana smentita, cui non prestavo credito, la  riduzione a meno di un chilometro del percorso restante, che ci forniva in altro passante in bicicletta.
Era incantevole la boscaglia circostante, di cui respiravo la stessa fragranza nel sole che ne avevo recepito quando con Kailash vi ero pervenuto al termine della ripida erta di scalini,
ma l’ansia di pervenire quanto prima al tempio e quanto al destino conclusivo della nostra escursione oscurava e precludeva ogni distensione mentale nella sua contemplazione appagata.
Ed eccoci alfine all’altezza del portale costituito di materiale di recupero e reintegri, che sapevo condurre alla ripida discesa scalinare che recava al tempio, un’ora e quaranta la durata della camminata, le due e dieci l ora del nostro arrivo,  ma nonostante fosse già tardi dato il rientro che dovevamo anticipare, differivo di percorrere la scalinata per chiedere conto dell’ora di partenza degli ultimi autobus per Ajaygarh, ad una guardia giurata locale che supponevo per questo una fonte più autorevole dei negozianti che avevo interpellato
Giù nel villaggio. Ed egli alleviandomi l’ansia e consentendomi più agio nel rivisitare il tempio, mi diceva che l’ultima corsa per Ajaygarh partiva alle 5,00, se non alle 5,30, come confermava un suo collega. Ci indicavano anche un percorso di discesa più rapido, la scalinata che si profilava al di sotto delle mura d’accesso all’area sacra del tempio, che recava nel sobborgo di katra, al termine del quale, laddove vedevamo profilarsi un traliccio enorme, stava la stazione o la fermata di sosta degli autobus.
Un avanzo di pena la discesa ulteriore per i 160 scalini, a contarli tutti, che ci separavano dal  tempio e dalle sue sculture rupestri non meno magnifiche, che tornavano a impressionarmi e ad esaltarmi al contempo, nella loro celebrazione dello sfrenarsi di Shiva il tremendo.
Mi prestavo ad essere agevolato da una ulteriore guardia nella loro decifrazione, ma quanti dei suoi dati erano attendibili?
Ed Ajay che faceva da traduttore intermediario, alla mia sordità porgeva in un filo di voce le sue informazioni.
A riunirle insieme, rielaborandolo il tempio sarebbe risalito nel samvat 853 a un re Pandu anteriore ai Chandella, che dopo la presa del forte nel samvat 2012, ne avrebbe sfumato il tantrismo sfrenato shivaita  sussumendolo alla celebrazione degli sponsali di Shiva e Parvati, in conformità con la rilevanza centrale delle loro festa nuziale per Shivaratri in Khajuraho.
Non vi era altro dio che Shiva scolpito ovunque, eccetto Vishnu ai lati del portale del tempo e la sua incarnazione più macabra Narashima, di fianco al pannello più  orrido, in cui una Chamunda più che mai emunta ed emaciata  sfrenava  la sua danza dissolutoria tra un Shiva consimile ed uno Shiva nero, un Manupero di cui mai non avevo sentito parlare,  mi ripeteva la guida,  un suo avatar faticava a farmi intendere Ajay, Shiva aghora intendevo io.
Le mie reiterate insistenze perché Ayaj quando non capivo i termini usati dalla guida me li traducesse a volte alta, e con sonorità comprensibili, erano state un tale gemito vano, che stizzito ad un certo punto ho dovuto frenare l impulso a scagliare verso qualche parete o piattaforma la macchina fotografica, incollerito da tale sua assenza o indisponibilità mentale.
Estremamente illuminante era il ravvisamento del mitico progenitore lunare dei Chandella re  Chandravarman  che mi propiziava la guida, nel raja con la Raniu al suo fianco che era reiterato in adorazione di Shiva, mentre in un altro sovrano dall’acconciatura meno tondeggiante e rigonfia era riconoscibile la figura storica di re Yasovarman.
Langur si affollavano ovunque, tra le rocce del tempio la cui suggestione più  potente era l’essere ancora un tempio vivente,  odorante d’incenso e di sandalo nell’oscurità cavernosa del suo garbagrahiha, umido e trasudante di fumi e fragranze e liquami oleosi di offerte,  oltre i soli pilastri e le trabeazioni che restavano del portale d’accesso, in cui il sole sforava radiante l’assenza di sovrastruzioni sommatali.
Re stava l’enorme  Shiva Nataraja con il fallo in erezione e collane di teschi, in compagnia di una Parvati o in  essa trasfiguratesi, che stentavo a individuare negli accertamenti della guida. Possibile, poi, che tra le svariate immagini di un dio col turgore rigido del fallo snudato non una corrispondesse a Lakulisha?
Comunque fosse, a ognuno il suo, alla guida il suo emolumento, e d a me e ad Ajay il conforto di una ricognizione esaltante, che per quanto affrettata, era durata quasi un’ora e mezza, imponendoci di affrettarci all uscita verso la scalinata che discendeva a Katra, secondo la scelta che aveva condiviso di Ajay, per quanto si preannunciassero alle mie rotule ed alle articolazioni delle ginocchia non meno di 450 scalini ad uno ad uno dei quali sconocchiarsi.
Che ne pensi Ajay, di Kalinjar?  Chiedevo al ragazzo nel calzare di nuovo le scarpe, che avevo dovuto levarmi per accedere al mandap e alla cella del santuario
“ E più bello anche di Ajaygarh”
“ Peccato che la foschia diffusa in cui si era schiarita la nebbia e la precipitazione del rientro al più presto in Kalinjar ci precludessero tutta la magnificità della vista della vallata e dei rilievi sottostanti e di indugiarvi,  che Ajay non raccogliesse che furtivamente i miei inviti ad ammirarla, nel rilucere pomeridiano del fiume che serpeggiava tra i coltivi a perdita d’occhio,  ora precedendomi in continuazione con altrettanta leggiadria quanto io affrontavo di sbieco ogni gradino con la grevità di un elefante, senza che nemmeno gli sfiorasse la mente di venirmi incontro ad alleviarmi la pena.
E quando gli chiedevo se fossero un peso per lui gravoso le bottiglie dell’acqua e i biscotti e la fetta di torta e la frutta ancora rimastaci da consumare nel sacco di plastica che recava in mano,  non raccoglieva l’invito indiretto a farsi carico almeno in parte del mio onere più gravoso. Si cinto intanto il capo con la mia sciarpa bianca, a guisa di turbante,  il che lo rendeva ancora più bello e contrariante nel suo bellissimo volto che ne traeva più ancora risalto nei suoi fini lineamenti oscuri.
Avevo smesso frattanto di contare gli scalini che restavano, altro che quattrocento, almeno settecento, secondo quanto mi sincerava un’altra guardia del forte che incrociavamo, porgendomi con estrema gentilezza lo sterpo che stava usando come bastone
Con i loro fasci di legna, o le capre che riconducevano dal pascolo, avremmo ancora incrociato donne e bambini, prima di  ritrovarci a valle , all ultimo scalino cui succedeva  un percorso cementificato in ulteriore discesa.
La via che traversava Katra ci offriva il più vario spettacolo al tramonto degli aspetti della vita di un villaggio indiano, i bambini intenti nel gioco con delle piastre di pietra, una cerimonia  religiosa ed un festeggiamento presso il porticato di una casa, il clangore del mulino e la vista di  macchinari di molitura o di cardatura, prima che ci ritrovassimo
Alla fermata degli autobus, quando non erano ancora le cinque di sera.
L’ultimo autobus che era stato dato in partenza per Ajaygarh era partito quando erano ancora le tre e trenta, e comunque non avremmo mai potuto prenderlo, e a poco ci era valso che nonostante le mie difficoltà dolenti avessimo impiegato non più di un’ora e dieci minuti per scendere dal tempio sino alla stazione di sosta degli autobus.
“ Io ci avrei messo solo mezz’ora” era il commento importuno di Ajay.
Lo mandavo in avanscoperta per raccogliere dati utili su quale autobus ulteriore e a che ora potesse ancora essere in partenza per Ajaygarh, e le risposte raccolte dovevo carpirgliele ad una ad una.
“ Ajay, debbo fare così perché non capiscono una parola d’iunglese”
“ Yes”
“ E tu perché non mi traduci quello che ti hanno detto”
Muto silenzio.
Unautobus era appena pervenuto dalla meta di destinazione.
“ Ajay chiedi se riparte per Ayaigarh”
“ Yes”
“ E che cosa ti è stato detto”
Ai suoi vaghi accenni tutto e il contrario di tutto-
Come alla domanda conseguente se ci fossero altri autobus per Ayaigarh e versio quasl ora,  prevalendo il diniego di ogni possibilità ulteriore, come restava a me di intendere e di non voler credere.
E dovevamo ritornare sui nostri passi dove si era arrestato, dopo avere svoltato, stando  o non  era meglio,  secondo i  negozianti affacciati sulla strada nel loro baracchino,  ed il mio parere, seguitare dove la strada per Ayagarh procedeva in direzione opposta verso Banda, dove era possibile che sostassero altri autobus di passaggio, e dove già con Kailash avevo trovato il modo di lasciare Kalinjar?
In mancanza della sua trasmissione di dati forzavo le cose in tale direzione, ritrovandomi oltre degli altri portali al incrocio viario che segna l ingresso in kalinjar  e già l’avviamento alla sua conclusione in direzione di Banda, dove verso la capitale del distretto dell’Uttar Pradesh in cui rientrano il suo abitato ed il forte, avviava una strada dal dissesto pulverulento.
Un’inquietudine crescente si stava in me insinuando nella sua vaga apprensione, che dissimulavo ad Ajay sotto un’aria svagata,  cercando l’appiglio di ogni possibile dato rassicurante,  mentre  faticavo a tacergli la mia insofferenza che Kailash non ci avesse ancora telefonato per chiederci dove ci ritrovassimo ed in quale situazione. Pazienza che per risparmiare lo facesse quand’io ero in viaggio da solo, ma ora, che alla mia responsabilità era affidata la sorte del figlio…
“ tuo papà deve avere una gran fiducia in me, se non mi ha ancora telefonato una volta..”
“ Yes”
Al punto dove oltre l incrocio fermavano ulteriormente gli autobus vedevo un uomo, poi  più donne che sostavano.
Chiedevo ad Ajay di domandare loro se fossero diretti anch’essi ad Ajaygarh.
Li interpellava, ma dovevo carpirgli la risposta affermativa che gli avevano dato.
“ E perché non me l hai detto ed ho dovuto cavartelo di bocca? Capisci , Ajay, l importanza della cosa? Se c’è della gente locale che è in attesa di un autobus per Ajaygarh, è quasi certo che c’è anche un autobus che prima o poi passerà e vi ci porterà.”
Capiva, solo che restava sulle sue, sempre più infreddolito, mentre la sera calava sempre più oscura e inospitale.
Che non fosse il caso di procedere invece in direzione di Banda, con il primo autobus che ci consentisse di lasciare comunque Kalinjar dove non avevamo di restare, e tentare il rientro in  Khajuraho con il treno notturno che vi passa provenendovi da Varanasi?
Era un po’ in senso inverso come il buscar il levante por el  ponente,  ci eravamo mossi da Khajuraho verso nord est e ci saremmo rientrati da nord ovest, ma comunque vi avremmo potuto fare ritorno la mattina seguente, per quanto il treno fosse “ normally late”un cumulo di ore, secondo il comunicato delle ferrovie  indiane che proprio lyngo quella tratta ferroviaria mi era divenuto familiare in Allahabad.
Mi confermava in tale avventurarmi, che il solo autobus che sostava in partenza fosse quello in direzione di Banda,  e iniziavo a fare menzione di tale opportunità ad Ajay, a  parlarne al telefono con un laconico Kailash, che si limitava a prenderne atto e a informarmi che il treno che da Varanasi reca a Khajuraho vi era in arrivo alle due notte.
Fino a punto era il caso di attendere un autobus sempre più improbabile per Ajaygarh, mentre i soli che nella sua aspettativa intanto effettivamente partivano e che rinunciavamo a prendere per lasciare a qualunque costo Kalinjar, erano prima l uno,  dopo l’altro, quelli che se allontanavano verso la più distante Banda?
Confabulavamo  facevo Ajay sempre più convinto dell’opportunità di muovere in tale direzione oppota,  solo, che convenivamo, era il caso di attendere che fosse definitivamente trascorsa l’ora di un eventuale partenza di un autobus per Ajaygarh, in tempo utile per la coincidenza per Panna, dove si faceva impossibile non dover permanere un’altra notte,  mentre le rupie non bastavano più per il pernottamento, e occorreva confidare nell utilizzabilità del bancomat.
Ma di li a poco veniva meno anche l ultimo appiglio della mia ostinazione a credere che un autobus per Ajaygarh potesse ancora sbucare o profilarsi in arrivo da una qualsiasi parte, un furgone di passaggio caricavo tutti coloro che sostavano lungo la strada che vi recava, e che in realtà erano diretti ad un villaggio a dieci chilometri di distanza.
“ Saliamo anche noi, Ajay?” sono stato tentato a chiedergli?
“ No” mi ha risposto con prontezza,  con tutta la sensatezza del caso.
Ci saremmo ritrovati  senza possibilità di alloggio, a sera più inoltrata, ancora più impossibilitati a muovercene che da Kalinjar
Facevo appello a Kailash, ancora per telefono, che si limitava a propormi di chiedere informazioni ulteriori ad altra gente locale.
Erano oramai le sei di sera, nessun autobus sarebbe più partito per Ajaygarh, ed ora che anche Ajay era dell’idea di tentare la soluzione di Banda, nessun autobus sarebbe più partito anche per tale destinazione, a quanto ci si ribadiva da più di uno,  compreso il gestore dio uno spaccio di  card e ricariche della telefonia mobile,  che sembrava avere più prontezza mentale della generalità degli altri nostri interlocutori precedenti.
A tal punto, con una fiducia interiore che sormontava tutte le difficoltà e le ansie del caso,  prospettavo ad ajay la soluzione estrema e a me più invisa, quella di ricorrere a un taxi.
Che altro ci restava da fare? 
Il guadagno conseguente avrebbe di certo reso reperibile anche in Kalinjar un qualsiasi conducente privato, confidavo, come mi confermava l uomo dello spaccio di ricariche, per il tramite di Ajay.
Solo che per Ajaygarh il trasporto  ci sarebbe costato non meno di mille rupie, ed  ancora di più per Banda, a oltre 50 km di distanza, troppi per le mie disponibilità effettive, a prescindere dalla mia carta di credito.
La sola opportunità che ci restava e che l uomo individuava con una tempestività che si rivelava il nostro appiglio imperdibile,  era quella di tentare di accordarci con un conducente di un furgoncino a più posti alla guida del quale era in procinto di partire per Naraini, un grosso villaggio sulla strada per banda e Citrakoot, dove era possibile comunque alloggiare, forse ancora prendere un autobus per banda, verificare l utilizzo della carta di debito, secondo le assicurazioni dell uomo dello spaccio
Dovevo chiedere più volte ad Ajay della effettiva località d’arrivo, e di quanto distasse,   come era venuto a sapere, e ricorrere alla sua mediazione perché il conducente dell’autoveicolo si accordasse per 300 rupie in luogo delle 4.00 che richiedeva inizialmente, per un percorso che sarebbe stato di una ventina  di chilometri.
Nel cuore oramai di una notte stellata rischiarata dalla luna, l’autoveicolo,l come vi salivamo alla partenza, si rivelava una autentica carcassa , mancava di ogni vetro che non fosse  quello frontale, e il freddo più acre ci raggiungeva dovunque, intirizzendovici tra i passeggeri amici che erano stati fatti salire a mie spese.
Porgevo ad Ajay un lembo dello scialle di cui mi ammantavo, ma egli se ne discostava, dicendo di patire quel gran freddo solo un po’. Ed io avevo la sconsideratezza di credergli e ritirare la mia copertura
Il fondo stradale integralmente dissestato rendeva intanto il tragitto interminabile,  allontanando da noi Kalinjar irrevocabilmente,  a una distanza tanto più remota quanto più era impensabile che potessimo ripercorrerla di nuovo,  per ritrovarcisi in tale avamposto di ogni abbandono del mondo.
“ The road is very bad”era la considerazione d’obbligo in cui  usciva Ajay dal suo riserbo.
Nel volto mi appariva eccitato dalla situazione in cui eravamo avventurati,  gli occhi spalancati sulla tenebre notturna,  come se le circostanze  che ci avevano coinvolti nella loro smisuratezza lo sospingessero a sentirsi e a farsi più grande del piccolo Chotan che si era ritrovato ad essere.
La mia ansia, in apprensione soprattutto per la sua sorte apprensivamente responsabile della sua sorte,  a sua volta  si lasciava immergere nella  immensità  della notte indiana  , in ciò che il corso assunto dagli eventi ci rivelava di così   bello e inatteso, la vastità dei campi  e la grandiosità degli alberi rischiarata dalla luna , il biancore dei casolari e delle casipole ai lati ghiaiosi delle strade, dove balenavano e sparivano alla vista le vampe crepitanti dei fuochi accesi dagli uomini che vi si riscaldavano e radunavano intorno
in capo a un’ora e quaranta  eravamo finalmente  a Naraini,  illuminata da cosi poche luci nella animazione residua nei suoi percorsi stradali, da lasciare ben poco sperare su che cosa potesse riservarci.
Il conducente del furgoncino smentiva che ci fossero alloggi in cui pernottare, coloro che contattavamo non ne sapevamo di atm, e le varie alternative cui dare la precedenza all’arrivo, su cui mi ero intrattenuto con Ajay,
si riducevano alla sola possibilità di trovare ancora un autobus in partenza per Banda.
Kailash con cui si erano persi i miei contatti, avendo esaurita la mia ricarica del cellulare, mi contattava in mia vece mostrandosi oramai fortemente preoccupato, in narerenj in cui potevo dirgli che eravamo arrivati avrebbe voluto che cercassimo un alloggio per la notte, temendo per la nostra salute esposta al gran freddo notturno più di quanto volesse un nostro ritorno a casa nei tempi più brevi,  essendo rimasto impressionato dalle notizie di quanti erano già morti in india per il rigore  notturno dell’inverno indiano,  ma data l irreperibilità di qualsiasi albergo in Naraini, che lo cercassimo in Banda, sempre che mi restassero rupie abbastanza per consentircelo e pagare l indomani i biglietti del treno o degli autobus su cui fare ritorno a casa.
Commutavo le sue esortazioni in disposizioni, visto che ne avevo affidata la sorte del figlio, e ad Ajay chiedevo di farci condurre dove fosse la stazione degli autobus.
Con il conducente del  furgoncino scendeva in strada e si arrestava poco distante, senza darmi spiegazioni, nemmeno dopo essere disceso a mia volta e d essermi affiancato a lui.
“E qui che ci stiamo a fare?”gli chiedevo stizzito. Ti ho chiesto di farci condurre quanto prima all’autostazione di cui si è parlato”.
“E’ tutta qui l’autostazione. E’ qui che fermano gli autobus per Banda”
Ed io come posso venirlo a sapere da solo,  se non c’è niente di niente “.
Per il tramite del conducente che li interpellava, sopraggiungeva un gruppo di uomini che ci attorniavano, che si rivelavano dei conducenti di autorickshaw.
Dopo che tutto era stato convenuto tra loro ed Ajay,  dovevo alzare la voce nei suoi confronti, perché mio dicesse che restava possibile recarci su una loro vettura ad Atarra, a una diecina di chilometri  di distanza,  dove c’era pur anche la stazione ferroviaria,  era utilizzabile l’atm, e in un albergo sarebbe stato possibile trovare alloggio.
Cominciavo così a intravedere la luce . Pervenire ad una stazione ferroviaria nodale, era già  ritrovarsi fuori della situazione più critica, dell’arresto all’addiaccio con Ajay durante tutto il corso della notte, in una località che non offrisse alcun alloggio ed alcuna possibilità di ripartirne che a nottata passata…
“ Ajay  va bene così, ma ti devo ripetere ancora che devi dirmi ogni cosa prima di decidere? Che mi sei stato affidato da tuo padre e che devo prendermi in cura di te? E debbo tener conto di tutto, come tu non fai: va bene così, ma solo se non viaggiamo su un’altra vettura senza vetri che ci riparino dal freddo!Capito? Capito?”
“ E’ un autorickshaw”
Solo una volta che l’autorickshaw è stato avviato ed era in corsa,  mi sarei reso conto che non aveva teli protettivi ai lati, e che insieme con me avrei esposto Ajay  all’infreddolimento di altri dieci chilometri almeno di  percorso stradale.
Dovevo sollecitare Ajay più di una volta a chiedere se Atarra, di cui sentivo parlare per la prima volta fosse tra Banda e Mahoba, verso la quale nel qual caso avremmo potuto inoltrarci direttamente. Restava invece tra Citrakoot e Banda, e Banda restava un’ulteriore tappa obbligata procedendo con l’autobus. Il conducente dell’autorickshaw ci ripeteva che un treno per Mahoba ripartiva dalla stazione di Atarra dopo la mezzanotte, ma vi fermava il treno che da Varanasi recava in seguito a Khajuraho?
In Atarra ci ritrovavamo ad essere risaliti di un altro livello di civiltà materiale rispetto a Kalinjar, strade luminose, trafficate, palazzi ed edifici moderni, con vetrature metalliche, uffici e filiali , non solo negozi, sovrappassi e sottopassaggi, vie affollate ancora di vita quando erano già passate le otto di sera. Ma quando l’autorickshaw sostava al principale atm ma vi andava delusa la possibilità di prelevare rupie.  Poco distante era un locale ove ed io ci riprendevamo dal gran freddo sorbendoci un the,  mentre chiedevo se a quell’ora vi fosse ancora un autobus in partenza per Banda. Si, e di li a poco, verso le nove,  sostando proprio lì davanti.  La fiducia nel decorso favorevole della scelta intrapresa conosceva il  battito d’ali d’una schiarita ulteriore… Mentre Ajay capiva all’istante l opportuniutà di eludere la stazione ferroviaria di Atarra e di procedere verso Banda dove il treno per Khajuraho avrebbe senz’altro fatto sosta , in una tappa di ravvicinamento,  tanto più che l’atm non mi aveva erogato il contante utile per rimanere in Atarra al riparo dal freddo in un  alloggio,  dovevo ripetermi più di una volta con il conducente premurosissimo dell’autorickshaw per fargli intendere la vantaggiosità che ci lasciasse a quel punto senza
condurci alla stazione ferroviaria.
Sferragliante e puntuale arrivava l ‘autobus per banda su cui salivamo, tra il suo carico di lavoratori pendolari involtati in coperte, nel suo interno senza riscaldamento.
Solo ora,  ravveduto dalle sollecitazioni di Kailash, vedevo che Ajay  aveva affrontato quel viaggio sprovvisto di giubbino e di abiti pesanti, traendone l’avveertenza a scostarlo dal finestrino cui s’era accostato da cui provenivano spifferi, e se rifiutava di trarre lo scarso riiaro  che offriva il mio scialle, che almeno gli facesse da coperta l’asciugamano che traevo  dallo zaino e in cui si invboltolava.
Le luci di Banda e le sue contrade notturne apparivano oltre i vetri quando da poco erano le dieci.
La confidenza che sempre più riponevo nel decorso della nostra avventura mi induceva a fare partecipe Ajay del mio intento di tentare di avvicinarci ulteriormente a Khajuraho  su di un autobus ulteriore che fosse in partenza per Mahoba, sempre che il freddo vi fosse sopportabile,  pur se attenendomi alle volontà di Kailash restava da perseguire l’intento di  trovare riparo e dove  dormire in Banda, sempre che un atm mi erogasse rupie, o di attendervi altrimenti il treno da varanasi,  all’interno accogliente della stazione ferroviaria. In Mahoba avrebbe potuto prendere anche il treno che vi proveniva da Delhi per khajuraho , se non quello che vi recava che muove dalla stazione di Jhansi
All’autostazione di Banda Ajay provava a chiedere se per mahoba cerano ancora autobus in partenza, ci si additava quello rossastro che oltre lo spiazzo d’arrivo stava avviandosi  proprio in quel momento,  irraggiungibile anche dalle nostre segnalazioni che ritardasse ad attenderci.
L’ultimo autobus per Mahoba, ci si diceva,..
Venivo allora elaborando il mio disappunto, quando Ajay mi mostrava un autorickshaw navetta su cui salire.
Per dove mai?
Per raggiungere l’autobus ch’era già partito. Glielo avevano messo a disposizione coloro che aveva già interpellato alla sua partenza
Salivo, malmostoso,  non senza ribattergli che non dovevo essere io a chiederne la destinazione. Se si fosse fermato invece per la stazione ferroviaria, o lo sportello di un atm,  dove sarebbe stato ugualmente sensato indirizzarci.
E perché mai, senza che egli o nessuno mi dicesse il perché, ora nell’algore notturno  la vetturetta si arrestava in quel punto stradale , dove le auto sollevano con le ventate di freddo solo un gran polverio.                   Era per arrestarvi chissà fino a quando l’arrivo chissà mai di un altro autobus per mahoba,  chiedevo sempre più alterato ad un Ajay da cui mi sentivo scavalcato, nelle mie responsabilità e nei miei compiti,  non immaginandomi che potessimo intercettare quell’autobus che sopravanzandolo al nostro sopraggiungere  e  chiedendo al conducente di arrestarsi  per farci salire.
E qui, da parte sua e del conducente si aveva modo di dirmi solo quando era già trasceso, che l’autobus deve ancora arrivare per farvi una sosta.
Il mio sfogo si faceva un’ eruzione incontenibile,  conscio che potevo consentirmela anche perché la situazione non metteva più ansia, od angoscia, per la tempestività dello stesso Ajay , su cui mi scatenavo, nel  dare attuazione alle soluzioni che gli venivo comunicando.
“ E come posso io anche solo pensarlo , se non mi dici niente, e mi taci tutto,  in questo punto della strada come ogni altro? Come faccio a sapere, se non mi dici niente,  che l’autobus  che abbiamo visto partire è quello che chi deve ancora arrivare, o se siamo qui in attesa di un altro, e fino a quando, con questo freddo? Io devo pensare a più cose di quello che credi, alla tua salute , e non solo ad arrivare,  devo considerare quello che vuole tuo padre.,  oh no, caro mio,  anche andare alla stazione ferroviaria,  o ad un atm, se c’è qui da aspettare, poteva essere una soluzione buona, ma tu sai già tutto, eh, sei tu che pensiu di stare decidendo e di di dover decidere anche per me, vero, e non pensi di dovermi dire tutto di quello che vieni a sapere in hindi che mi serve a decidere… sei un ragazzino di quattordici quindici anni,  te lo ricordo, mentre sono io che debbo provvedere per te, alla tua salute e sicurezza prima di tutto! E copriti come devi, una buona volta … “
E così urlandogli, più che dicendogli, lo strapazzavo avvoltolandolo nell’asciugamano che lasciava cadere sui fianchi.
Con ciò il nostro capitano coraggioso era da me sventuratamente ridotto alla sua remissione forzata di ogni giorno senza più neanche l’aire di fiatare.                                                                                                                                                      
Né mi placavo quando eravamo già seduti sull’autobus che era sopraggiunto e ci conduceva a mahoba
“ Se pensi che sia un baba murk,  stupido, non è proprio il caso che viaggiamo insieme ancora un’altra volta! Ma che cosa anche solo ne sapevi di Banda e Mahoba, in kalinjar,  eh, tu che credidi stare decidendo tutto e di stare facendo tutto di testa  tua… Chi l’ha trovata questa via d’uscita… tu, in tutto, come tuo padre, come voi indiani,  a pensare e parlare solo per ordini,  mai che siate capaci di decidere insieme, o di  fare insieme con  gli altri… di pensare per loro… sempre e solo a tenervi tutto per i fatti vostri… e la lista del conto si allungava ad includere ambo le salite e le discese in cui non mi aveva dato una sola volta la mano o sollevato dello sforzo, che era rimasto indietro o mi aveva proceduto in avanti…”
“ You decide all”   era quanto non poteva più che dirmi all’arrivo in Mahoba, quando gli ho fatto presente l’alternativa ulteriore che ci si prospettava,o farci condurre in autorickshaw direttamente alla stazione ferroviaria, ad aspettarvi  almeno fino alle tre, se non tardava, il treno per Khajuraho in arrivo da Varanasi, o in autorickshaw avviarci a cercare un atm, e se ci avesse riconosciuto l’autorizzazione della carta di credito e rilasciato contante, sistemarci in un alberghetto vicino, e ripartire l indomani mattina, con il primo treno che fosse fino a tal punto in ritardo, o con l’autobus.
Era ovvio nella mia mente che anche solo un briciolo di saggezza non lasciava spazio a un’alternativa reale, che s’imponeva quanto imponevo al mio Ajay  derelitto, così , dopo avere disseminato con un’aria stupida e svagata i conducenti di autorickshaw che ci si appressavano intorno, gli ordinavo di chiedere a due ragazzi che ancora  andavano su e giù in autorickshaw alla autostazione di portarci al più vicino atm, che non era quello della State bank of India richiesto, ma che forse proprio per questo mi accreditava a viva voce le  credenziali da gran signore per ottenere le rupie più che bastanti ad assicurarmi qualsiasi soggiorno  notturno in Mahoba e rientro mattutino in Khajuraho.
I due giovani compari non avevano nessun discernimento di scelta negli hotels, così non restava che sistemarmi con Ajay nel  primo che fosse utile a posarcisi su un letto e a fare meno di entrambi, per il loro atteggiamento profittatorio, visto anche che per avere scorazzato in su ed in giù per qualche chilometro chiedevano quanto ci era stato richiesto da Naraini ad Atarra.
La stanza ed il bagno sono veramente brutti, Ajay, e le lenzuola ed i cuscini lo vedi quanto sono sporchi,  ma  avevamo a che fare con due “madarchor”, e qui ci serve soltanto un letto dove dormire vestiti al riparo dal freddo fino a domattina. Se vuoi possiamo lasciare l hotel alle tre di notte, quando è in arrivo il treno per Khajuraho. Tik-e?”
Conveniva il ragazzo,  “ very good” era il commento di sollievo di Kailash quando veniva a sapere del nostro pernottamento in stanza a Mahoba, grazie alla ricarica che Ajay era stato in grado di effettuare in Atarra poco prima dell’arrivo dell’autobus per Banda” Ora sono tranquillo e posso dormire fino a domattina. Non cìè più problema, voi potete anche fare ritorno anche domani sera, viaggiando di giorno”.
Di li a poco le coperte che ci serviva l’addetto alla reception, il cui loculo per dormire era dietro una serranda da garage, ci  hanno offerto una tale tiepida alcova nel freddo della stanza che il sonno è piombato istantaneo e non ci siamo risvegliati solo dopo le sette del mattino.
La giornata sii preannunciava magnifica, con l ultimo dilemma ancora da sciogliere, lo stesso tutte le volte che da Mahoba si deve fare rientro in Khajuraho- se sia meglio prendere un treno che impiega solo un’ora ma che non si sa mai con che ritardo parta provenendo da altrove , o un’autocorsa che di ore che impiega non meno di tre e mezza, abitualmente quattro, ma di cui basta recarsi all autostazione per verificare l ora certa di partenza. Se uno dei due treni da Varanasi e da Delhi fosse arrivato in ritardo proprio al contempo quell’ora alla stazione, un’ora dopo soltanto ci saremmo ritrovati in Khajuraho,
La sensatezza condivisa ci  induceva a verificare come stessero innanzitutto le cose all’autostazione, un autobus vi era immediatamente in partenza per la nostra destinazione, e su di esso ci era giocoforza salire.
Avessimo tentato l’azzardo irragionevole, alle nove del mattino  avremmo potuto ritrovarci in Khajuraho tre ore prima,apprendevamo all’arrivo,  con il treno che nel frattempo sta raggiungendo la stazione di Mahoba con cinque ore di ritardo, le stesse di quanto si sarebbe prolungata la degenza notturna di me ed Ajay in una delle stazioni ferroviarie lungo la tratta, se l’avessimo scelta in Atarra, Banda o Mahoba appena dopo il nostro arrivo.
Ma Khajuraho non ci sarebbe apparsa così bella come si è rivelata arrivandovi in pullman da Mahoba, pur  nel dissesto dell’accesso mediante la sua circonvallazione, nello snodarsi sotto il sole  prima di  Vidhya Colony, poi dei villaggi turistici e di serre e giardini, tra le radure e gli armenti del pascolo, dell’estendersi ultimo di Sewagram, nei fortilizi squadrati delle sue case su cui si sopraelevavano i sikkara dei templi, nella plaga del Ninora talab prospiciente i templi di Brama, Javari e Vamana, l’incrocio da cui iniziava l’intrico di case di Khajuraho vecchia, quello dell’ ulteriore chowk alle sue estremità, da cui aveva inizio l’addentramento lungo il viale alberato nell’area verde dei servizi civici –l’ ospedale, la polizia, le poste-, che preludeva nei suoi viali al dispiegarsi dei parchi degli hotel di lusso, prima dei quali un’ampia curvatura dell’autobus poneva felice termine al nostro viaggio nella autostazione di quanti miei arrivi e partenze tra la felicità ed il pianto.
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