Gentile signora Cinzia,
un immenso grazie per avere affrontato l’ardua lettura del
mio reportage, trovandolo originale e davvero interessante(
spero grazie anche alla presentazione che ne ho formulato.
visto che lo stesso Krishna Deva dopo aver dedicato ai templi Kalachuri di
Amarkantak e Sohagpur una pagina del suo
pur esiguo Temples of North India, non
li ha nemmeno citati nel suo ben più cospicuo Temples of India, e che nelle guide che li concernono di Good earth, edite per conto del Madhya Pradesh Tourism, mentre ci si profonde in miti e leggende-
magari un tantino scipite, -ne faccio
ammenda – , ai soli templi di Amarkantak non si dedicano che tre righe, ove per giunta se ne menziona a sproposito l “intricate carving”). Quanto alla forma espressiva dello scritto, su cui lei ha fatto bene ad
essere quanto mai critica, credo che sconti
le incongruenze che io stesso avevo preventivato tra il racconto del viaggio, nella sua
accidentalità empirica, ed i referti
forse troppo sintatticamente condensati delle varie descrizioni dei templi, che
pur nella loro accuratezza tecnico-formale ne hanno perso assai d’ importanza. In merito a tali
considerazioni di stile, spero almeno che sia vero ciò che avrei potuto far
presente a Claudio Magris, quando al festivaletteratura di Mantova del 2014 ci
siamo incontrati per un attimo al termine di una sua conferenza sui propri diversi tavoli di scrittura, ed ho mancato di
rilevare che magari le proprie capacità
ad uno di uno di questi tavoli pregiudicano
quelle che agli altri si tenta di far valere In tali mie pagine, in realtà,. da dilettante
appassionato quale io sono, ho voluto assolutamente trascendere il puro
approccio dilettantesco di certi scrittori di viaggio che si appagano al più di
far “sniffare” sensazioni od emozioni, magari
spiritualmente aromatizzate
Quanto alla grafia dei termini tratti dalle lingue
indiane, ho fatto ricorso
concordatario ai glossari dei volumi di
Krisna Deva e di R. D. Trivedi editi dall’ASI, e se mi si abbuonano i segni diacritici, la cui trascrizione mi creerebbe difficoltà che mi appaiono ora pressoché insormontabili, non mi sembra
che in essa risieda la questione
linguistica più ostica, refusi a parte.
Avverto come un cimento maggiore il problema, che è per
altro assai avvincente, della selezione
lessicale dei termini tecnici da impiegare
E’ il caso ad esempio
di adhishthana o vedibandha, che impiego il primo per l’ intero
basamento, il secondo per la sua conformazione originaria in Khura, Kumbha,
Kalasa ( non che poi, abitualmente, in antarapatra e kapota), divenutane il solo podio superiore in quelli di
Khajuraho, o dell’uso di tilaka o di kuta,
di chaitya o gavaksha o kudu,
di
bhitta o di pitha, e via dicendo.
Questo per dirle che credo che un esperto sia solo
relativamente dirimente, in tale ambito, e che la cosa resti quanto mai problematica, e non di meno
affascinante.
Se poi si considerano i problemi retrostanti di come
individuare con precisione le varie modanature, se una proiezione sia autonoma
od una espansione laterale sussidiaria, con tutte .le corrispondenze che
vengono a scandirsi differentemente, il tutto si fa vertiginoso.
.(Istanbul, Dacca....mentre il terrorismo mi sta
sopraffacendo, paralizzandomi facoltà e sogni.)
Un vivo saluto
Odorico Bergamaschi
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