Siamo oramai a metà del guado dell’anno che almeno a Mantova si è inteso dedicare a Giulio
Romano, e mentre aumentano le
pubblicazioni in uscita un po’ di tutti i nostri storici dell’arte, vuoi
l’Occaso, Braglia , Girondi, più o meno curate o raffazzonate per l’
occasione, necessitando in vero di tempi più lunghi, va in crescendo il rullare di trombe e lo
squillare di tamburi della sua celebrazione enfatico propagandistica, ad opera a di chi intende trarne lucro e
lasciti in eredità di ogni sorta ,
vuoi convertendo sovranisticamente GIulio Romano in un Giulio Mantovano , vuoi (per
rinnovare le fortune impenitenti di Federico II) cercando di acchiappare turisti alla luce di
un’idea tutta orgasmica di arte e desiderio. Così stando le cose, ben vengano dunque, a riequilibrio di un celebrativismo enfatismo
negato finanche a Leonardo nel concomitante Cinquecentenario della sua morte, le stroncanti paginette su Giulio Romano scritte di recente da A.
Moresco,nel suo incantevole libretto La mia città edito da nottetempo, in sana controtendenza come è inevitabile che
sia, per chi è davvero scrittore e critico. Che dice mai di male su Giulio Romano il
nostro? Tutto le sfumature di male possibile,
direi, nel breve spazio di neanche tre deliziose paginette: che il nostro Giulio fu “ un ottuso e arrogante allievo
di Raffaello, venditore di fumo tardo
rinascimentale”, colpevole, a suo dire,
di avere “riempito tutta la città di Mantova dei suoi bugnati del cazzo”, un
po’ come l imbarbimento dell imbarbarimento attuale, mi vien da
soggiungere, che a pensarci bene ,
aggiungerei io, richiamano tutto l’” imbarbimento” dell’imbarbarimento attuale,
il resto di Moresco ancor più in discesa libera… A dire il vero , a salvaguardare Moresco dalla facile
rimozione nell’irrilevanza critica, proprio da parte di chi bonariamente
lo perdoni con l’adagio che non è poi uno del mestiere, che a uno scrittore che sia battitore libero quando è in vena di dire la sua si può perdonare anche l imperdonabile, sempre
che ci diverta ed intrattenga, ci
dia insomma un po’ di piacere, va ricordato che nella sua denigratio di
Giulio Romano egli è in illustre compagnia di storici e critici, quali J. l Burckardt
a C. Gould, e che se dai tempi dell Hartt, il 1958, non esce nel mondo più alcuna monografia globale
su Giulio Romano,neanche per editto, non
può essere solo per l’ignavia nei suoi riguardi di noi moderni e contemporanei, mentre resta tutto da dimostrare, che cosa non sia
vero niente di quel che Moresco ha detto
di male di G. Romano.. Lasciando ad altri tale compito ingrato, nel salvare
almeno il minimo che sia salvabile del
Pippi, vorrei qui accodarmi a quel che “ delle imbarazzanti diavolerie di Giulio
Romano” resta salvabile per lo stesso Moresco. Sarà pur poco, ma è pur sempre una pepita,se colta pur
con tale acrimoniosa avversione a tutto campo, rispetto
a quanto venga rimasticando qualche venerabile maestro, autocelebrandosi nel
concelebrare maxima cum exaggeratione
Giulio Romano. Concelebrandosi esageratamente con Giulio Romano.
Quel che Moresco salva
del Giulio Romano, del Te, “ con qualche
medaglione là in alto, qualche silenziosa barca che scivola nella prima luce
sull’acqua…” sono i cavalli, nient’altro che i cavalli dell omonima sala, ma
almeno quelli, che anche a me piacciono tanto. E non solo quelli, che rinnovano
gli alti fasti in tema della pittura di
corte mantovana, dal Pisanello al Mantegna, ma anche quelli , e ancor più quelli,
mi piacciono, della sala di Troia in Palazzo Ducale, che mi dicono molto, di più, per come ne è espresso il
furore fisico nelle froge e negli occhi, nell imbizzarrirsi dello scalpitio e
delle criniere..Li si confronti insieme a quelli invece olimpici del Mantegna con le figure umane circostanti, e si dica tra umanità adulta ed equinitas a chi vanno le simpatie dei due, in quale resa dell’ empito agonistico di Teucri e Cavalli sia più bravo Giulio Romano, e non solo nel disegno, come
sempre, ma pur nel colore e nella pittura, dove a volgerlo
alla perfezione latita tanto un suo vero
tormento. Perché è in quei cavalli, come
nelle acque e linfe sorgenti e scorrenti della sala di Amore e Psiche, nella resa, se è
a presa rapida, di satiri priapici e condiscendenti
ninfe, della naturalità del mondo istintuale in cui rientriamo noi tutti quanti, che Giulio romano
rivela il meglio di sé nell’arte raffigurativa. Come dal Leonardo della battaglia di Anghiari, da tale Giulio Romano insieme alle sue ninfe perturbate desunse Rubens i cavalli dei suoi magnifici
dipinti equestri, e ne è una riprova che benché dipingesse allora in Spagna, ai
primi anni del suo soggiorno in
Mantova risale nel 1603 lo stupendo suo ritratto
del Duca di Lerma e del suo cavallo,
iniettato della stessa ferinità istintuale di quelli di G. Romano nella
sala di Troia. Un gran Rubens che ritroveremo in Gericault, Delacroix, nello stesso De Chirico.
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