martedì 18 giugno 2019

i cavalli di Giulio Romano


Siamo oramai a metà del guado dell’anno  che almeno  a Mantova si è inteso dedicare a Giulio Romano, e mentre  aumentano le pubblicazioni in uscita un po’ di tutti i nostri storici dell’arte, vuoi l’Occaso, Braglia , Girondi, più o meno curate o raffazzonate per l’ occasione, necessitando in vero di tempi più lunghi, va  in crescendo il rullare di trombe e lo squillare di tamburi  della  sua celebrazione  enfatico propagandistica,  ad opera a di chi intende trarne lucro e lasciti in eredità  di ogni sorta , vuoi  convertendo sovranisticamente  GIulio Romano in un Giulio Mantovano , vuoi (per rinnovare le fortune impenitenti  di  Federico II)  cercando di acchiappare turisti alla luce di un’idea tutta orgasmica di arte e desiderio. Così stando le cose, ben vengano  dunque,  a riequilibrio di un celebrativismo enfatismo negato finanche a Leonardo nel concomitante Cinquecentenario  della sua morte,   le stroncanti paginette  su Giulio Romano scritte di recente da A. Moresco,nel suo  incantevole  libretto La mia città edito da nottetempo,  in sana controtendenza come è inevitabile che sia, per chi è davvero scrittore e critico.  Che dice mai di male su Giulio Romano il nostro? Tutto le sfumature di  male possibile, direi, nel breve spazio di neanche tre deliziose paginette:  che   il nostro Giulio fu “ un ottuso e arrogante allievo di Raffaello,  venditore di fumo tardo rinascimentale”,  colpevole, a suo dire, di avere “riempito tutta la città di Mantova dei suoi bugnati del cazzo”, un po’ come l  imbarbimento  dell imbarbarimento attuale, mi vien da soggiungere,  che a pensarci bene , aggiungerei io,  richiamano tutto  l’” imbarbimento” dell’imbarbarimento attuale, il resto di Moresco ancor più in discesa libera…  A dire il vero , a salvaguardare Moresco  dalla facile  rimozione nell’irrilevanza critica, proprio da parte di chi bonariamente lo perdoni con l’adagio che non è poi uno del mestiere, che a uno scrittore  che sia  battitore libero  quando è in vena di dire la sua  si può perdonare anche l imperdonabile, sempre che ci  diverta ed intrattenga, ci dia insomma un po’ di piacere, va ricordato che nella sua denigratio di Giulio Romano egli è in illustre compagnia di storici e critici, quali J. l Burckardt a C. Gould,  e  che se dai tempi dell Hartt, il 1958,  non esce nel mondo più alcuna monografia globale  su Giulio Romano,neanche per editto, non può essere solo per l’ignavia nei suoi riguardi di noi  moderni e contemporanei, mentre  resta tutto da dimostrare, che cosa non sia vero niente  di quel che Moresco ha detto di male di G. Romano.. Lasciando ad altri tale compito ingrato, nel salvare almeno  il minimo che sia salvabile del Pippi,  vorrei qui  accodarmi a quel  che “ delle imbarazzanti diavolerie di Giulio Romano”  resta  salvabile per  lo stesso Moresco. Sarà pur poco, ma  è pur sempre una pepita,se  colta  pur con tale acrimoniosa avversione a tutto campo,   rispetto a quanto venga rimasticando qualche venerabile maestro, autocelebrandosi  nel  concelebrare maxima cum exaggeratione  Giulio Romano. Concelebrandosi esageratamente con Giulio Romano.
Quel che  Moresco salva del Giulio Romano, del Te,  “ con qualche medaglione là in alto, qualche silenziosa barca che scivola nella prima luce sull’acqua…” sono i cavalli, nient’altro che i cavalli dell omonima sala, ma almeno quelli, che anche a me piacciono tanto. E non solo quelli, che rinnovano gli alti fasti in  tema della pittura di corte mantovana, dal Pisanello al Mantegna, ma anche quelli , e ancor più quelli, mi piacciono, della sala di Troia in Palazzo Ducale, che mi dicono molto, di più, per come ne è espresso il furore fisico nelle froge e negli occhi, nell imbizzarrirsi dello scalpitio e delle criniere..Li si confronti insieme a quelli invece olimpici del Mantegna  con le figure umane circostanti, e si  dica  tra umanità adulta  ed  equinitas  a chi vanno le simpatie dei due,  in quale resa  dell’ empito  agonistico di Teucri e Cavalli sia  più bravo  Giulio Romano, e non solo nel disegno, come sempre, ma  pur  nel colore e nella pittura, dove a volgerlo alla perfezione  latita tanto  un  suo vero tormento.  Perché è in quei cavalli, come nelle acque e linfe sorgenti e scorrenti  della sala di Amore e Psiche, nella resa, se è a presa rapida,  di satiri priapici e condiscendenti ninfe, della naturalità del mondo istintuale in cui rientriamo  noi tutti quanti, che Giulio romano rivela il meglio di sé nell’arte raffigurativa. Come dal Leonardo della battaglia di Anghiari, da tale Giulio Romano insieme alle sue ninfe perturbate desunse Rubens  i cavalli dei suoi  magnifici  dipinti equestri, e ne è una riprova che benché dipingesse allora  in Spagna, ai  primi anni del suo  soggiorno in Mantova risale nel 1603 lo stupendo  suo ritratto del Duca di Lerma e del suo cavallo,  iniettato della stessa ferinità istintuale di quelli di G. Romano nella sala di Troia. Un gran Rubens che ritroveremo in Gericault, Delacroix,  nello stesso De Chirico.


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