Cala l’ombra dei monti sui casolari fumanti,
di sterpi e sterco dai bracieri esalanti,
s’annida la luna tra le mahua ritorte,
cede il sole la sua luce di sangue al fiume
che scorre,
nella successione dei mesi che volge
alla fine dell’anno
anche il
Natale,
la notte dell'amico scosso dal pianto per la bufala morta
che cercava conforto nel calore del corpo dei figli
accanto nel sonno,
con la vigilia in cui nell’albero al limitare del
colle
vedevi il ramo a cui appenderti al sole,
e ora chi è stato ospite sverna già al Sud, è in Irlanda che urla di nuovo contro i ritrovati
snackers,
radica nel Bangladesh la
coltura del neem,
in tutti con un curry speziato
infuso un nostro lascito di folli speranze,
quando è stato solo ieri che l’uccelletto
Ashesh, di ritorno furtivo,
ci ha
già lasciato e derubato di nuovo,
come se nulla fosse stato, dell’incanto nel
parco,
di appostarci alla vista di antilopi e cervi,
del viaggio, di piccoli uomini,
intrapreso con Ajay, al villaggio dei nonni,
per le forniture del negozio e la riscossione dei crediti ,
seguitando, tra le nebbie,
la crescita dei germogli infestati di grano,
dei bei
volti amici intenti ad apprendere e degli inquisitori di turno,
ogni freddo/fumido mattino Kailash infreddolendosi all’arrivo dei treni
per intercettare nel flusso l’occasionale
turista,
Vimala, l’infinitesima volta,
nel risospingere il riflusso di acqua in
cortile,
tra i bambini che pettinati e rilavati
si avviano a scuola in tuctuc,
mentre Chandu può dormire ora più a lungo
sotto le coltri
ora che a noi tutti si è provveduto un
giaciglio.
Ma pur se il viride miglio
delle suore ne ravviva la grotta,
ora che l’anno finisce felice
è la nostra mangiatoia il pagliericcio di un
morto bambino
nel cui astringerci crepita il
fuoco.
Egloga indiana settima frammenti spersi
E quando le opere parevano morte,
inutile ogni sforzo
intentato,
che solo fosse protratta la resa,
un nuovo splendore illumina i giorni,
la vacca tra la pula che lecca il vitello,
(la senape nei campi che germoglia col grano,)
la senape nei
campi che germoglia, dinuovo con il grano
germoglia di nuovo,
e pur nei presagi di essere tolto via da ogni giorno (della
fine),
e la sera non è tenebra ombra di sventura
quando cala dai colli sui fumi sospesi dei fuochi,
velami dell’aria che imbruna
le aie e i coltivi,
che oscura oscurando le campanule protese
slanciate tra i fili ritorti,
ora che l’acqua del
fiume trascorre più ancora
immota imperturbata al tramonto, nel volgere a un nuovo mattino ch’ è nel
primo mattino di luce anche nell’ombra
agli armenti che vi pascolano
lenti/ quieti
dove è luce anche
l’ombra,
e di riparo conforto è anche il tugurio di stracci ed
infissi,
della prole di guardia
“ ru…pees, ru..pees,
pigolando come gli uccelli tra i rami la prole di guardia,
solo l’ incanto
benedicesse anche i letamai dove rovistano insieme maiali e bambini,
solo il canto degli uccelli sovrastasse
il pigolio degli “hello, rupees” dei piccoli
come esci per strada,
il tugurio di stracci ed infissi dove giace la prole di
guardia,
e tu potessi
confidare poichè senti e sai che nulla potrà più andare perduto
di quanto sia stato il dolore dei giorni,
ora che l’amico forse ha preso il passo
di chi sa essere per gli altri,
prima che tutto s intorbidi ancora nel in tal gorgo,
che al letale sospetto
sotto i cieli non ci sia
più latitudine o longitudine per chi differisce non è come gli altri,
e l’amarezza sia il
flutto che risale da tutto quanto è trascorso,
ma come Vimala lascia le coltri
che dolce tepore
prenderne il posto accanto al mio Chàndu,
infinitamente/delicatamente accarezzarlo nel sonno,
presagendo nella fitta il dolore che il dono di
grazia
sia il sopravvivere anche alla sua perdita,
mentre lente le nuvole gonfiano l’arco dei cieli,( gennaio febbraio2013)
altro di tremendo e risorto
ancora ci attende ( 18 marzo 2013
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