giovedì 5 settembre 2013

A Pali, Dudhai





 
L'avventura di un viaggio così suggestivo non potrebbe avere esordio più prosaico e confortevole, fin dall'inizio esso non richiede percorsi proibitivi , anzi, ci offre tutto l'agio di intraprendere da Lalitpur la high road per Sagar, e di  uscirne sulla destra in direzione di Pali, per ritrovarci, al di là del villaggio, dove i coltivi e gli addensamenti delle piante tra i campi- mahua, neem, choeula-,  cedono alla boscaglia che precede i bordi dell'altopiano incipiente, finchè  si finisce ai piedi di una scalinata che risale il pendio.
Cento scalini, ancora, e si è alla radura in cui appare il  muro di cinta del tempio di Shiva Neelkanteshwara.
Il biancore calcinato della muraglia e del  santuario lasciano presagire che il luogo di culto sia antico quanto ripetutamente rifatto nel suo persistente  nucleo originario. Il tempio che ci appare, entro la recinzione, consiste della sola cella, con un vestibolo d'accesso assicurato da una rientranza, e sopra un cornicione il suo tetto è assolutamente piatto: le sue sembianze costituiscono una delle forme originarie dei templi Gupta, la cui sopravvivenza è tenace, nel cuore dell'India,  dove i luoghi di culto sono più appartati e solitari.
Sulle pareti di fondo e laterali, una nicchia  campeggia vuota, affiancata da dei pilastri con un rilievo a T tra coppe fogliacee dell'abbondanza, sovrastando un fregio di leonini kirtimukka le cui fauci spalancano la voragine della vita e della morte, in cui ha termine il  profilo elegante del basamento.


Superato il portale d'accesso, che di rilevante ha l'incorniciatura sotto l'inarcatura di  un torana delle divinità fluviali Ganga e Yamuna, ci attende la preziosissima reliquia del tempio. E' il bassorilievo Gupta che mostra Shiva in tre dei quattro volti che assume abitualmente nei lingam,

al centro nel sembiante  meditante della sua potenza di Tatpurusha, o “ Spirito supremo”, ai lati nei suoi  opposti estremi  che così ci affrontano, sulla destra  quello dolcemente femmineo di Vamadeva, poichè Shiva vi è tutt'uno con  la soavità femminile della consorte Parvati, alla nostra sinistra il suo volto stravolto di  Shiva Neelkanteshwara, il Signore dalla gola azzurra. Come appare nel rilievo,  la gola gli fu atrocizzata per avere ingerito l'amaro veleno residuo della frullamento mitico dell'Oceano di latte, ossia la rimanenza negativa dell'ambrosia, od amrita, che ne fu estratta da demoni e dei, ingurgitando la quale Shiva evitò che il mondo ne fosse distrutto.
A nulla sarebbe altrimenti valso che dei e demoni, o asura, usando come zangola il monte Mandara, e il serpente Vasuki quale fune per frullare, mentre lo stesso Vishnu, nella sua incarnazione in una provvida tartaruga, fungeva da perno della montagna messa  in rotazione, avessero così reinfuso nei tre mondi, proprio grazie a Vishnu, l'energia che in essi  e nel dio Indra era andata perduta, a seguito di una maledizione di Durvashas, illustre rishi shivaita, per un'offesa arrecatagli che non poteva restare senza conseguenze. Quanto alle vicende del tempio che si presume che siano invece di natura storica, potrà accadervi che qualcuno degli attendenti  vi narri di come il re moghul Aurangzeb, odioso più dei suoi innegabili meriti, detestando ed avendo in gran dispetto ogni forma di religione che non  fosse la propria di devotissimo muslim sunnita,( vedasi quanto capitò per suo volere agli  stessi sciiti di Hyderabad, le cui moschee furono ridotte a delle stalle), qui giunto per sfregiare ciò che dei templi e delle immagini religiose hindu non aveva tempo o modo di abbattere, avesse sparato un colpo di pistola al volto sacro di Shiva Neelkanteshwara: e come ne fosse sgorgato del latte dell'oceano primordiale.
Aurangzeb, a ciò turbato, nonostante tutta la sua pervicacia fanatica, avrebbe allora rivolto una sommessa preghiera al dio, allontanandosi senza  più infierire.
Quanto il tempio sia dunque ancora vivente, ve lo attesteranno i devoti che assiduamente vi salgono  per ottenere ogni genere di buona sorte, insieme con i custodi e gli addetti intenti ai riti ed alla sua manutenzione, o ai loro lavori artigianali che assicurano attrezzi e sostentamento, ricavando a colpi d'accetta il profilo di una zappa da un pezzo di legno, o intenti a scerpere i rami che intrecceranno il capanno di una puja. Tali fedeli li potrete vedere tra le loro offerte  composte in forme di yantra, sotto addobbi che li porranno più in intimità propizia con il dio.

Una volta discesi e che si sia di ritorno nel villaggio di Pali, che si ritroverà immerso tra i coltivi circostanti di betel, lo si lascerà per un arteria che corre più a sud, costeggiando i bordi  dell'altopiano che insistono  sulla destra, fin che non li affronta e li risale svoltando per alcuni tornanti. Ci attende una distesa più arida che non il fondovalle, tra dimore e recinti di pietrisco. E  quando già si preanuncia Dudhai, d'improvviso tra la sterpaglia compaiono le prime testimonianze del suo illustre passato, dei complessi di tempietti.


I piccoli edifici di culto cubiformi, con una lastra per tetto piatto, ove essa ancora sussista,  consistono  del basamento e del muro del jangha
 e presentano la sola apertura del portale d'accesso,


  fasce puramente ornamentali - a scacchiera, di fiori di loto pienamente schiusi , diamanti e rosette,


 


 


 

 lungo le pareti si alternano a delle fasce in cui la decorazione di arcuati chaitya, a ferro di cavallo, è il coronamento di edicole di statue,


 


 

 

Altri recano nella loro nudità parietale il solo intaglio in una rientranza delle statue delle deità celebrate- Ganesha danzante,
Kartikkeya sul veicolo del pavone, Gaya Laxmi che degli elefanti irrorano dell'acqua celestiale del Ganga.
Il villaggio di Dudhai cui la strada perviene serpentinando nell'arido incolto, è così scabro e sparuto nella sua dispersione di case, che nemmeno riesce ad avvivare, nostalgicamente, il rovinoso e romantico contrasto tra la sua realtà presente ed il suo grandioso passato, quando Abu Rihan Alberuni nell'XI secolo ebbe a parlarne come di una grande capitale. Ma basta superarne l'abitato, inoltrandosi per la vasta aspra distesa che si apre al di là delle case, forse .il  bacino prosciugatosi di un antico talab, per vedere concretarsi,  il fantasma della sua perduta grandezza, nell'alto sikkara che si profila dal rialzo della depressione incolta.
E' ridotto al suo riassestato cuore di pietra,  periclitante sopra ciò che il restauro ha ricomposto del tempio vishnuita di cui  è la sovrastruttura.


































Una  doppia entrata , delle quattro originarie,  secondo una pianta che noi occidentali diremmo a croce latina, sulla sommità della piattaforma dà accesso al deambulatorio,ora tamponato, che volge  intorno a due oppos(i)te celle contigue, o garbagriha, con in  comune il muro di fondo,  ed entrambe  dedicate  a Vishnu.
 Quando il general maggiore Alexander Cunningham vi venne tra il 1874 ed il 1877 , quale direttore generale dell'Archaeological Survey of India,

per conto dell'autorità British, ritrovando il villaggio di Dudhai ridotto a un insediamento di appena 40 persone, il tempio non presentava più alcuna icona statuaria di rilievo, non v'era alcuna traccia di piedistalli di statue, già i rilievi delle trabezioni dei portali erano stati rimossi, e  tra le due camere centrali vi era una porta, che pregiudicava l'ipotesi che il muro in cui era stata aperta avesse potuto fungere da supporto alla statua di un dio, sicchè egli  ebbe a supporre che fosse un tempio Jain, con le statue dei 24 tirtankharas, o profeti della fede jainista, allocate nelle due camere centrali
 Il  mandir  precede la magnificenza residua del tempio ulteriore, che immette con un accesso unico alla sala, o mandapa, il cui splendore è tutt'uno con quello dei garbagriha dei tre santuari che vi si affacciano nei loro portali,  ognuna per ciascuno degli dei della Trimurti hindu, Brahma multicefalo,

Shiva danzante Nataraja,  Vishnu. Ai tempi del sopraluogo  del maggiore Cunningham  erano ancora in rovina le camere dei gargagriha laterali, il che spiega perch lo ritenne uno dei rari esempi di un santuario dedicato al dio Brahma.

 
Nei domini dei Chandella un tempio similare, con tre santuari in onore di tre manifestazioni diverse del dio Vishnu, ricorre a Makarbai, nei pressi dell'ulteriore loro capitale, Mahoba, confinata ora nellUttar Pradesh.Il suggello di un richiamo innegabile può essere il diamante macroscopizzato che ricorre in entrambi i templi
















 


( immagine del tempio di Makarbai)
Portali, trabeazioni, pilastri, sono uno sfarzosa ostentazione di motivi ornamentali hindu  secondo i modi in cui  li stilizzarono le maestranze Chandella, in volute serpentinanti e ondulate, architravi reticolate a  scacchiere,



che richiamano la loro ricorrenza nelle trabeazioni della sala del  mandap e del portico d'accesso del più grazioso dei templi di Chandpur,  l'altra vicina capitale dei Chandella-, o altresì impreziosite  con rilievi di corolle di loto dai larghi petali, di fiori cuspidati nell'intradosso, o aggettanti con acuzie nella fascia sottostante, come si dà nella trabeazione del portale d'accesso alla cella brahmanica, mentre sono  ovunque sovrastanti musici e danzatori, tra colonnette che incastonano diamanti.
Kirtimukka figurano nel rilievo a T maiuscola, dei pilastri, che riconnette vasi fogliacei dell'abbondanza, secondo una variazione ch'era presente già nei portali dei tempietti sulla via di Dudhai,  mentre nell' effusione vegetale dei vasi  riaffiora un naturalismo non ancora geometricamente stampigliato, secondo il diktat degli standard di Khajuraho, ch'è tipico dell'arte Gupta fiorita nelle vicinanze di Deogarh e Behati.
Di particolare bellezza sono le colonne laterali del portale del Garbagriha del dio Brahma,  un dado dal design di eleganti volute ne rinserra le spirali ascensionali del fusto, prima del suo concludersi campaniforme, come campaniforme ne è  il capitello.


E ancora due tempi jain,


una statua  di Varaha, l'incarnazione in forma di cinghiale del Dio Vishnu,


 con tutto il complesso delle  deità hindu arricciate addosso come ne fossero i peli,

in una simbiosi di naturalismo e simbolismo, che ritroviamo identica nella scultura più grandiosa che fronteggia il tempio Laksmana  di Khajuraho.
Sulla via poi del rientro,   la si lasci pure, Dudhai,  ma per  il rilievo dirupato sulla sinistra della piana che ne fu d'ingresso, e si badi bene, nell'aggirarne il profilo, di non discostarsene, tra le piste che insabbiano. Solo così si raggiungerà,ora tra un'orribile ingabbiatura di cemento, l'alta scultura rupestre della incarnazione di Vishnu nel leone-uomo Narashima:


Spettacolare e impressionante, più di quanto si possa oramai dire che sia bella, talmente la superficie ne è stata erosa, al punto che le venature della pietra sembrano fibre legnose.
Un horror a cielo aperto, il dio digrignante nella sua ferinità appagata, non senza che ne trapeli il gusto dell'eleganza, nei resti rupestri dei diamanti che lo ornamentavano. Poco più o poco meno che la propria sagoma di malcapitato tra le sue grinfie, ciò che resta, invece, della presunzione di inattaccabilità di Hiraniakashipu. . il Ricoperto d'oro,  nemico impenitente del proprio figlio adoratore di Vishnu. Né di giorno, né di notte, né da un uomo né da un dio, né da un animale, né dentro né fuori il suo palazzo, avrebbe mai potuto essere ucciso, secondo quanto Brahma gli aveva accordato, ed infatti al crepuscolo, da un uomo leonino, né vero  uomo né vero animale, sortito istantaneamente dalle colonne del palazzo, dunque né da dentro né da fuori, da Narashima egli fu sventrato con gli artigli, ineccepibilmente.
Ed il crepuscolo è  l'ora ambigua del distacco e del nostro rientro, felice e dolente, nella quotidianità di Lalitpur festosa di frutti nei suoi bazar.



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