giovedì 7 maggio 2015

in autobus, di ritorno da Chhatarpur


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Di ritorno da  Chhatarpur con il mio giovaneAjay,  non eravamo ancora giunti all uscita dalla città che l’autobus  su cui eravamo partiti in pochi passeggeri all’autostazione,  già alla seconda fermata  era  strapieno nella stessa corsia,  dove si venivano accalcando donne e bambini tra giovani e vecchi. Di villaggio in villaggio l’autobus ha seguitato a gremirsi, ancora di più,  al punto che benché fossi seduto ero pressato da gomiti e bagagli,
Ma più che la calca o la ressa,  mi assillava un senso di  angoscia che cercavo di evitare che divenisse asfissia e panico urlante, nel ritrovarmi di nuovo, su un autobus indiano, intrappolato nel carnaio della folla che per lucro vi era stata fatta salire, in soprannumero pigiandola, stipandola in un fittume di corpi fin che ce ne stavano ,  senza possibilità di scampo al minimo incidente.
Esternavo la mia  ansia al solo Ajay,  che ben sapeva cosa sarebbe avvenuto, se in luogo dell’accettazione passiva di uno ulteriore stato di cose intollerabile avessi esternato il mio disdegno e  una minima forma di rivolta,  come mi aveva detto delicatamente  nel ristorante di  Kanpur, quando avevo iniziato a smaniarvi per l indifferenza degli indiani ricchi verso i loro poveri, che li induce a rivolgersi allo straniero per trarne di tutto:  “ riderebbero solo di te”.
“ Pensa che ne sarebbe di noi, se  l’autobus si ribaltasse e ci finissero sopra queste donne e bambini”, il cui pressarmi vivevo come un’ostile minaccia.
Era mancato poco, a marzo,  che succedesse qualcosa del genere a me ed a Kailash, lungo la strada in dissesto che da Satna conduce a Rewa,  ripercorrendo la quale, al ritorno, dall autobus che ci riconduceva verso  casa si era staccato un finestrino,  che Kailash non era stato in grado di trattenere. Il bigliettaio aveva scosso il capo ed aveva fatto cenno di non darsene pensiero, si poteva e si doveva procedere oltre. Per qualche decina di chilometri soltanto, per nostra fortuna, fin che l  autobus non è stato più in grado di procedere oltre, e siamo trasbordati su altri  pullman di passaggio.
Non sono passati due giorni da quel viaggio a Chattarpur, di me ed Ajay, per farmi prescrivere le medicine utili a sedare i miei eccessi mentali, che al rientro verso casa, era la sera di lunedì, vedo le donne del vicinato che gremiscono in silenzio i chabutras della casa bianca che fa angolo all imboccatura del vicolo dove è la nostra abitazione, e quelli delle dimore che li fronteggiano.
Capisco istantaneamente che è successo qualcosa di grave,  di cui Ajay vuole  parlarmene solo quando ci ritroviamo a sedere nel bazar, a un tavolino per consumare dei momos .
Un giovane poco più che ventenne, che viveva con la sua famiglia muslim in quella casa bianca, era appena morto, quel  pomeriggio,  nell incidente stradale occorso su un autobus  lungo la stesso percorso stradale, nel tratto successivo che reca a Panna. 35 i morti secondo un primo computo, no, una ventina, secondo i successi rilievi ufficiali, 50 secondo il referto finale.
Da che sono rientrato in India, nel corso di pochi mesi era la seconda persona che periva vittima di un incidente d’autobus  che abitasse lungo quella via, dopo la giovane insegnante che è morta,  il novembre scorso,  nel disastro occorso nei pressi della stazione ferroviaria di Khajuraho.

I notiziari tutti, che avrei ritrovato in internet, avrebbero detto della sola dinamica dell incidente,  che l autobus era uscito di strada poco dopo le Pandava Waterfalls, finendo nel greto in secca di un fiumicello  dove il serbatoio della benzina aveva preso fuoco, come se fosse stato per la fatalità di un mero evento naturale,
Ma le voci via via raccolte , già il numero stesso delle vittime,  dicevano che era stata una strage in tutto e per tutto causata proprio  da ciò che mi fa rivoltare la mente quando viaggio in  India.
L’autobus viaggiava con oltre settanta passeggeri a bordo, senza uscite di sicurezza, quando avrebbe potuto farne salire al  più la metà,  ma  è così che succede in  India quando , come ora, è la stagione dei matrimoni.
L’autista sembrava che avesse bevuto alcolici e fosse su di giri,  perché guidava l’autobus ad una velocità spericolata. In realtà  era esagitato perché era stato messo alla guida di un autobus  su cui aveva faticato a tenere la strada fin dalla partenza,  ed a lungo si era sgolato invano al cellulare con il padrone del mezzo di trasporto per  potere arrestare una  corsa che gli era divenuta sempre più incontrollabile,  fin che all’altezza del ponte non era stato in grado di sterzare.
La maggior parte delle vittime era  finita carbonizzata con i propri indumenti dal fuoco sprigionatosi dal serbatoio dell’autobus,  per cui anche il loro riconoscimento era stato un orrore insostenibile per i loro congiunti.
La mia mente non è riuscita a procedere oltre, nell immaginare che cosa potesse essere accaduto nelle loro menti, nel sentirsi schiacciati e soffocati dai corpi  degli altri passeggeri catapultatisi addosso,  a toglierti il respiro, odiosi e letali, ogni possibilità di movimento e di scampo, mentre il fuoco raggiungeva i loro corpi prima del tuo, e le loro urla ti anticipavano la tua fine imminente.
L’indomani , i giorni seguenti,   nelle vie di Khajuraho che in piena estate  sommergevano nella polvere del loro rifacimento mancato,  da due anni in corso, i passanti e ciò che era in vendita in strada , il mio furore folle e iracondo avrebbe voluto aggredire alla gola ogni abulico viandante, le  persone ferme ai margini, per la loro  apparente  accettazione quiescente di ogni stato di  cose esistente.
“ Ma che cosa ci possiamo fare? What we can do? Che cosa ci puoi fare, tu,  che qui sei soltanto uno straniero?’-è  la sola  reazione di Kailash che avrei raccolto adirata,  dopo avergli mostrato, come anche in ufficio,  la polvere stradale abbia di nuovo ammantato ogni cosa.
Dimenticandosi, l’amico, che mi basterebbe l’andarmene via, io che lo posso, seguitando a distanza l aiuto e l’amore, con la mia follia per avere tutto alle mie spalle.  









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