L’inferno delle psicopatologie di Kailash di cui debbo essere il” guaritore ferito”,
che ne fu forse l’ infettante, ravvivano di splendore i giorni che la
settimana scorsa prima del Natale ho
finito di trascorrere in Gwalior e nel suo circondario, risalendovi in Amrol, in Dang, agli albori
iconici ancora incerti dei templi hindu delle dinastie Pratihara, in Gwalior al
loro fulgore estremo già raggiunto nel Teli-Ka mandir, all’intaglio nella
roccia di ogni canonica minuzia scultorea nel monolite roccioso del tempio
Chaturbuja lungo l erta che reca alla fortezza,
a quanto resta della disfida in grandiosità e magnificenza / splendore
ai templi di Khajuraho dei nuovi sovrani Chandella intentata dai Kachchapagata, già loro alleati
e divenutine vassalli, nei santuari al
suo interno Sash e Bau, in Sihonia nel romantico avvampare ora di rovine del
Kankamadh.
Di tali escursioni,
mi è ora di conforto rammentare soprattutto quella avvenuta di domenica in
Dang, un remoto villaggio in prossimità
di quel Gohad Chauraha che mi era
stato preannunciato come un insediamento che più minuscolo non avrebbe potuto
essere lungo l’arteria di raccordo di Gwalior con Bindh , a trenta chilometri
di distanza dall’avvio della corsa in
minipullman.
Invece, nella smentita puntuale delle proprie aspettative
che sa riservare così spesso l Incredibile India, quando vi sono sceso al
termine di una corsa tra distese di arativi di campi ancora
spogli, di un interesse
paesaggistico meramente agronomico, che può attirare per la sua natura
fertirrigua crassa e piatta soprattutto l’acuto
interesse economico di coltivatori punjabi, tant’è che l unico edificio
di risalto apparsomi ai finestrini era
stato un tempio sikh gurudvara che avevo avvistato in prossimità dell’arrivo,
mi sono ritrovato in un’arteria trafficata di un sobborgo vasto di per se quanto una delle cittadine cresciute lungo i
percorsi stradali dei Distretti indiani a me familiari, a tre chilometri di distanza dal grosso del centro città vero e proprio,
mentre in direzione opposta una freccia mi indicava che ad un chilometro era
localizzata anche una stazione ferroviaria.
In quello stesso suburbio non mancavano gli stessi atm, e
ben altro che di soli biscotti avrei potuto sfamarmi, che il giorno avanti, all
ingresso in Amrol, che dall’addetto alla
reception mni era stato invece prospettato come un villaggio in pieno sviluppo,
degli insegnanti che il conducente del
tuc tuc aveva contattato mi avevano avvertito che era la sola cibaria che vi
avrei potuto reperire, sempre che dei nativi, o loro stessi, non fossero
disposti ad offrirmi da bere anche del tè.
Non mancavo inizialmente di essere sviato verso la stazione
ferroviaria, dopo avere fatto scorta di banane e di guava, prima di ritrovarmi
avviato , da indicazioni credibili per la loro concordanza, lungo il
seguito del percorso effettivamente da
intraprendere per giungere a Dang, che era (lungo) la stessa arteria
trafficatissima dei veicoli più pesanti , autobus e camion, che seguitava in
direzione di Bindh, ancora avanti per non meno di tre, cinque chilometri a
piedi, fattibilissimi data anche l ora meridiana in cui iniziavo a
incamminarmi.
A cenni e in hindi, un primo passante che interpellavo
ulteriormente mi faceva intendere che Dang
era situata sulla concrezione argilllosa dell’altura minimale che dopo
tanta pianura si profilava sulla mia
destra ancora remota, facendosi via via
fascinosa, perché tra la vegetazione arborea le dimore che iniziavo a
scorgervi, nel loro sopralevarsi
assumevano le parvenze di residui di antiche torri.
Come dei casali nella vastità delle campagne meridionali
d’Italia, li precedevano tra i coltivi , che fossero minuscole case,
postazioni di avvistamento di watchmen a guardia dei campi o ripostigli di
arnesi, edifici a guisa tutti quanti di parallelepipedi senza seguiti di tetti
o di ingentilimenti di sorta, che avrei
visto contrappuntare anche le campagne del vicino distretto di Morena nel recarmi a Sihonia.
Mi smarrivano frecce di vistose segnalazioni in hindi, per
cui per il tramite al cellulare di Kailash chiedevo conferma della esatta
direzione di marcia a un giovane di grande avvenenza che sopraggiungeva in trattore , solo poco
prima che delle frecce ulteriori mi indicassero anche in inglese che la strada
da intraprendere era proprio la scorciatoia sulla destra che sinuosa tra i
campi recava verso quella altura, per un
tratto a piedi ancora a lungo, dove il venir meno del manto stradale di cui restavano solo incrostazioni
sparse, si faceva la pulverulenza
di un camminamento terminale patibolare,
tra le asperità del ciotolio soggiacente
al loro insussistente arco plantare.
Un passante mi offriva sulla sua motocicletta un passaggio
la cui gentilezza non mi sentivo di
ricusare, proprio mentre la vista del villaggio mi si veniva slargando a
distanza ravvicinata, e così mi
ritrovavo a discendere di li a poco proprio all’altezza dell ingresso del
tempio, in una radura dell’addensarsi di alberi
nel cuore del villaggio.
Mentre depositavo lo zainetto presso la piattaforma del
tempio, e ne ragguagliavo l’immagine alla sua riproduzione fotografica, il
gruppo di anziani e ragazzi che stazionava appresso si scomponeva per venirmi
incontro, com’era da attendersi che fosse , mi dicevo, senza innervosirmi o
spazientirmi anzitempo per i contrattempi che la loro curiosità poteva ingenerare, avevo tutto
un pomeriggio davanti per la perlustrazione dell edificio cui il volume di Trivedi Temples of the Pratihara
Period in central India non riservava
più di tre pagine, e potevo ben
ricondurre le loro istanze alle mie., sempre che fossero loro a porsi al mio
seguito, e non accadesse , come di solito avviene, che in un sopraluogo tu
apra un libro per investigare un tempio
o una pianta, e i fanciulletti o i giovinotti
nativi, senza il minimo riguardo per un’attività mentale di cui non
capiscono il senso, o cui non pensano di
dover portare rispetto perchè a
compierla è la bizzarria di uno straniero,nella sua inferiorità umana, con il loro sguardo ficcante anticipino
l’indiscrezione istantanea delle l domande intemperanti con cui ti
interpellano, che non possono che
distoglierti dall’attività di ricerca in cui ti stai concentrando. Ma a filtrare
l’appressarsi di ragazzi ed anziani erano due giovani che sapevano con me interloquire in inglese,
e che mi assicuravano che il soddisfacimento della curiosità e degli interessi
degli astanti non prevaricassero sulle
mie esigenze di visitatore.
Dei due quello più
affabile mi informava che un mese avanti era morto il pujari del tempio che
faceva da guida a chi sopraggiungesse occasionalmente, e costui era lo stesso suo nonno paterno, il che
spiegava come in segno di lutto fosse rasato il suo capo, cui accennavo come a
riprova-
Da allora nessun altro era sopraggiunto da fuori a visitare
il tempio, e in onore della mia venuta reinaugurale, un fanciullo
sopraggiungeva con un vassoio di dolci, che ingentiliva
Ancor più l’accoglienza che mi si veniva riservando.
Venuto meno il sikhara originario del tempio insieme con la
varandika, la sua visita avrebbe richiesto l’indagine visiva solo del
basamento e delle pareti e del portale
d’accesso, con la sola complicanza, che già mi avevano riservato i templi di Amrol, ma che però mi si sarebbe qui riproposta più intricata,
che l’ordine delle divinità cardinali del tempio vi si era si completato, oltre le tre soltanto che nel
più antico tempio di Amrol , il
Ramesvara, avevano conseguito tale insediamento tutelare, ma con solo Agni, Yama e Nirriti posizionati
nel lato direzionale che sarebbe stato il loro, definitivamente. Come si era
verificato nel tempio di Amrol più tardo il Danebab, vi si sarebbe ripresentato
Surya, per uscire di scena poi nei
templi posteriori, ma invece che
occuparvi, come nel Danebaba, il sito
che sarebbe stato presocché per sempre quello di Isana, vi sarebbe comparso in
luogo dello stesso re Indra nell’angolo est- sud dove costui si sarebbe
stabilizzato permanentemente. Il seguito
delle divinità a guardia del tempio mi avrebbe riservato, per giunta, tutta una serie di irregolarità
ulteriori rispetto al posizionamento
cardinale/ direzionale che
sarebbero divenuto quello in pianta stabile degli altri dikpalas,. Vayus vi occupava ( occupava) (ndovi l’angolo)
avrei infatti dovuto ricercarlo
nell’angolo che sarebbe divenuto di Varuna,, in luogo del quale avrei
dovuto vedere comparire Hari-hara, per trovarlo essendovi invece
insediato nell’angolo di nord-est che
sarebbe divenuto il presidio definitivo di Kubera., mentre in seguito,
se tutto tornava, avrei visto una divinità femminile non meglio precisata
prendere il posto che sarebbe stato
quello poi fisso di Isana
Ripresa l opera del Trivedi , con i miei due accompagnatori
ed i ragazzi che mi restavano appresso, cui si univano via via degli anziani incuriositi e
interessati, tra svarioni vari e
ravvedimenti repentini, a iniziare dalla confusione di Surya con l immagini che
invece era di Brahma che campeggiava nella kapili settentrionale del vestibolo,
stupefacentemene mi disciplinavo a
meraviglia nell’apprendere dando
apprendere, al tempo stesso in cui
scoprivo che come il secondo dei
templi di Amrol, dall epoca altomedievale della sua fondazione era rimasto per
i nativi un tempio di culto vivente di cui si era persa ogni memoria o
consapevolezza dell’identità degli dei che vi erano scolpiti.
Mi si era fatto subito cenno a Krishna dadhi-manthana, intento alla angolatura del latte con la
madre Yasoda, in una formella dislocata incongruamente sopra il portale
d’accesso, talmente travalicante è la popolarità della sua ghiottoneria
birichina del burro delle gopi, di cui
non avrebbe tardato a derubare i cuori stessi fattosi giovinetto, e come non ravvisare Ganesha nella prima delle
divinità di stanza nelle proiezioni centrali, ma quanto alle stesse divinità
cardinali, o a Kartikkeya riconoscibile per il pavone che alimenta, quale suo
veicolo, o a Parvati in Pancha-agni-tapas nelle altre nicchie principali, le
cui immagini vi erano di stanza a completare il consesso famigliare del dio
Shiva cui il tempio era dedicato, come già in Amrol, o Batesara, o Naresar,
secondo un’ordinanza canonica che avrei ritrovato nelle nicchie inferiori del
basamento dell’ adhisthana del tempio
Chaturbuja di Gwalior, in cui soggiacevano a quelle superiori di Vishnu e di
due sue incarnazioni, essendo tale tempio
in onore dell onnipervadente,
talmente si era stabilizzata negli ordinamenti iconografici delle
maestranze templari, ciò che dicevo
illuminava le menti degli astanti come una rivelazione originaria.
Errori smentiti, ripensamenti, correzioni in corso di
visualizzazione e ribadite
stabilizzazioni interpretative , ma tutti sembrava concorrere ad assicurarmi
l’attento riguardo di un seguito indefettibile e ammirato, che cercavo di accalorare della mia passione
emozionata, alla vista dei mirabili ornamenti delle nicchie e della
magnificenza della viridiscenza vegetativa dei pilastri laterali - prati-rathas che ne monumentalizzazavano il risalto,
ancora gremiti della vitalità naturalistica dei rilievi Gupta, forse una primizia del tempio di Dang, tale
ricorso a guisa di paraste dei prati-rathas, come nel fasce del portale quello
di bande in forma di pilastri o stamba-sakhas, di cui un sikhara fosse il
coronamento terminale. E come non esaltare il dispiegarsi a ruota retrostante del piumaggio del pavone
di Kartikkeya , a suo insediamento in un
trono di gloria che ne irradiava il fulgore divino?
Già a quello dei due fratelli che mi era più amichevole,
avevo alluso alla bellezza incantevole dei motivi decorativi delle tulas che
soggiacevano ai pratirathas lungo la modanatura dei kalasas, o alle carenature
degli udgamas che sormontavano le nicchie, assumendovi vivaci sembianze leonine
in quelle delle nicchie centrali, al tempo stesso in cui gli indicavo il tetto di un
edificio vicino le trabeazioni che ne sporgevano, le sciahtir,
per fargli intendere che ne
imitavano nella pietra le testate ornamentate che fregiavano i templi hindu
lignei originari. Ne avrei avuto un ricordo struggente il giorno seguente in
Sihonia , quando l’immensità immane del
Kankamadh mi si sarebbe ridimensionata, momentaneamente, alla vista del degrado
della finezza della grafica scultoreadelle tulas che vi comparivano oramai come
un residuo arcaico, in epoca avanzata
Kacchapagata, al pari di come in una immagine ingrandita gigantescamente la
risoluzione bassa dei dettagli la sgrana in una ricampionatura rovinosa..
Una giovane signora indiana , proveniente dall’America, e
nativa di gwalior, vi avrebbe invece invertito i ruoli che in Dang mi aveva conferito presso i
nativi la mia pur tormentata cognizione iconica delle loro divinità scolpite,
quando all uscita dal garbagriha dove si era prosternata in adorazione del
linga al seguito di un gruppo di ragazze che vi avevano recitato una
litania di mantras, mi faceva presente che la pradakshina che aveva appena
compiuto non si prestava all adorazione di Shiva, e che avrei dovuto invertirne
in un secondo tempo il corso in senso antiorario, così come mi era imposto ogni
volta, senza che ne avessi tratto il debito insegnamento, dalla piattaforma
circolare che nel Matanghesvara recava sino alla scalinata d’accesso al linga
superiore, intorno al quale era d’obbligo poi ruotare in senso contrario.
Le pareva buona cosa che in Sihonia, come in Mitaoli,
Padhavali o Batesara , non vi fossero
che visitatori indiani, e la mia
esperienza della realtà devastante dell’
attratività turistica di Khajuraho mi induceva a darle conferma mentre ci
congedavamo, pur se poco prima avevo fatto redarguire da un indiano due
ragazzini che stavano scalando una parete dal tempio, mentre un uomo stava
discendendo da una delle nicchie centrali dove per farsi fotografare aveva
preso il posto della statua dells divinità che vi era un tempo riposta. Degno
emulo delle coppie che incorniciano il loro amore entro gli archi dei mirhab
delle moschee monumentali di Delhi.
In Gwalior avrei poi
assistito all ingresso seriale al Teli-ka-mandir. di gruppi di ragazzi che ne
varcavano il recinto solo per scattarvi selfie e foto amicali di cui il tempio
per cui non avevano occhi non era nemmeno lo sfondo, e nei templi Shash Bahu all irrompervi comitive studentesche che vi transitavano
solo per riempirli del loro chiasso
berciante, od appollaiarsi e sfilare lungo le trabeazioni di supporto dei
grandi pilastri del mandapa centrale.
In Dang invece, come
già in Amrol , preso il Danebaba, mi si
veniva a distanza al seguito, mi ci si faceva accanto per condividere la mia
ricerca, farmi domande, mi si conveniva intorno, terminata la visita, per la
serie di domande che dettava loro la
curiosità, dopo che un ragazzo era statio incaricato di recarmi del the
con dei biscotti. Quanti altri paesi avevo visitato’ Da quando l india era
diventato il mio approdo permanente? ED eero stato in Pakistan? Com’era sta con
me la gente del Pakistan? “ Come voi, rispondevo sorridendo, con un dito volto circolarmente,
accennando al loro grato radunarmisi intorno. Per curiosità ed interesse i pakistani
giovani mi si facevano talmente addosso,
dicevo, che a volte era dovuta intervenire la polizia. E vi avevo trovato
templi hindu? No, a onore del vero, neanche uno, oltre le moschee soltanto
delle chiese cristiane, presidiate dalle forze dell’ordine. Ma lungo la
frontiera vi sono luoghi dove ihindu e islamici pregano negli stessi templi,
come a Delhi sulla tomba di Sultan Ghari, o nella Firouz Shah KKotha. Erano ben
consapevoli, di ciò che aggiungevo , che le cose vi si fanno gravi se uno
lascia la propria religione. Islamica per unì’altra religione. In India ritenevano che non dovessi avere avuto
problemi a professarmi cristiano, come confermavo, pur non tacendo delle difficoltà e delle paure rivelatemi da
altri cristiani, E gli indiani nel mondo? E
i loro mandir? Ne avevo incontrati molti nel mio stesso paese,
provenienti dal Punjab, addetti ai
lavori dei campi ed alla mungitura, altri insediati in ogni parte del mondo,
dove i templi che costruiscono spesso riuniscono i loro tratti hindu a quelli
di chiese, di moschee, luoghi di culto buddisti, per significare che molte sono
le religioni, ma uno solo il loro Dio.
Gli astanti mi accreditavano oramai di un tale grado di conoscenza delle universe
vicende e delle loro vestigia culturali, che si passava a chiedermi che cosa
mai concernessero le lastre allineate a noi accanto ai bordi della attuale
piattaforma del tempio. La mano aperta jn rilevo nella parte sovrastante mi
faceva ritenere, come loro attestavio, che potesse trattarsi, come già in ERan,
di lapidi commemorative del sacrificio di qualche sati consuma negli antichi tempi , come loro
convenivano persuasi.
L’ora era già tarda, e mi si provvedeva un passaggio in
motocicletta fino a Gohad Chauraha., non senza prima avermi lasciato in dono un
pacco di dolciumi, e che scambiasi le mie generalità e il mio recapito in
facebook con i due fratelli che
seguitavano a fungermi da tramite.
V’era tuttavia ancora il tempo perché con un seguito appresso
mi si portasse in giro per il villaggio, a vederne le case che dei miei
accompagnatori erano le abitazioni, da cui mi si facevano incontro le donne di
casa, dai bancali frontali, i chabutri, estesi quanto giacigli, le stalle e i
covili dei loro animali, tra cui le capre più care con cui si facevano
fotografare, i cumuli simili a covoni di pani di sterco e i capanni che ne
erano i depositi, un santuario all’aperto ricavato dai resti del
tempio.
Dove mi attendeva l uomo che con la sua motocicletta mi
avrebbe trasportato, uno zio dei due ragazzi, che trepidamente e
teneramente mi ci avevano condotto per
mano, erano radunati degli uomini intorno a un fuoco, degli anziani che erano
le autorità del villaggio con i quali, sedevo a riscaldarmi al calore delle
fiamme. Avevano tutti quanti prestato servizio nell’esercito mi si diceva di
loro.
“ Ed hanno essi combattuto contro il Pakistan? chiedevo
sollevando l’ilarità circostante.
No, si smentiva, nel congedo finale
“ Finora, chiedevo al giovane che mi era più caro di
tradurre per tutti, cui avevo appena confidato che mi era stata da loro donata
una delle giornate più belle di tutta la mia vita, forse una delle dieci più
meravigliose, Dang era solo il nome di
una località scritta su un libro. Ora
resta scritto ancor più nel mio cuore”
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