lunedì 18 giugno 2012

Con molte delle nostre vite ne ha sconvolte tra noi di cose il terremoto

Insieme con molte delle nostre vite ne ha sconvolte tra noi di cose il terremoto, con la stessa ironia tagliente che credevamo riservata al magistero della storia.
Chi difendeva il proprio campanile come proprio simbolo identitario, che avrebbe voluto che nei secoli dei secoli svettasse in esclusiva tra le nostre campagne, e non tollerava che condividesse lo slancio di minareti o dei pinnacoli di chattri di gurdwara sik, ora possiamo ritrovarlo tra i più esasperati che non si proceda quanto prima al suo abbattimento, pur di non condannare il proprio centro abitato a non risorgere mai più, sotto l’incombere della minaccia del crollo sismico del campanile sulle case sottostanti, mentre ne piange l'abbattimento la ragazza sik, che vivendo in un casolare adiacente si è trasfusa nella nostra civiltà.
Chi vedeva nel verde dei campi una natura amica, da salvaguardare dal demone divoratore inghiottitutto del cemento, ora deve affidare innanzi tutto, pur se non in esclusiva, al bruto cemento grezzo e al neoprene armato la comune difesa dalle insidie che la natura cela nel grembo, da che sotto il suo sguardo e sotto i suoi piedi esse l’hanno percorsa terrificanti, sollevandone i coltivi insieme con i nostri municipi, e l’allievo che faceva del proprio banco un obbrobrio,- mentre magari rendeva la vita impossibile proprio all'insegnante di Geografia che lo stava avvertendo della natura sismica del nostro territorio, - ora confida nel proprio banco come nel più protettivo dei beni- rifugio se sopraggiunge una scossa, laddove le scuole che per prime riescano ad ottemperare al meglio a quelle norme antisismiche, che più di ogni altra hanno finora eluso, nel marketing dei nostri istituti potrebbero risultare le più attrattive.
A sua volta per chi ancora ritrovava finora il bello solo nella sopravvivenza e nella reviviscenza dell’antico, senza più indulgere in malinconie ossessive è gioco forza accogliere l’idea che il bello – com’è avvenuto così di frequente nel passato- sopraggiunga in nuove epifanie attraverso l’abbattimento forzoso delle vestigia pericolanti degli edifici storici, per care che siano le memorie di cui sono gravide, pena il trasformare in ruderi inabitati intere comunità agricole. E con la renovatio dell’idea di bello si fa improcrastinabile, in loco, quella dell’idea ecclesiastica di bene.
La Chiesa che credeva di poter ritardare i rendiconti della propria dogmatica con la contemporaneità, ora è qui costretta a schiudersi alla fede di chi si rifiuta di leggere i disegni di un Dio sovrano onnipotente in quello che accade, deve negarsi la temerarietà di credersi il gregge salvaguardato da Dio come suo popolo eletto, rispetto a chi Dio avrebbe castigato con la sua ira sismica.
Ma sarà così in grado, per non incorrere altrimenti nel discredito, di attendere a sacralizzare il secolare e a secolarizzare il sacro, come richiedono le circostanze ed è il suo compito da sempre, evitando di curarsi delle anime che stanno nelle chiese più di quelle rimaste impaurite nelle tende o che sono già al lavoro nei campi, più delle macerie dei propri luoghi di culto che di quelle di capannoni e fienili e case, e saprà spezzare il pane e versare il vino sugli altari come sui tavoli domestici e di lavoro, pregare attraverso la preghiera come attraverso il dispendio di forza lavoro e d’amore solidale?
Ma così, risulta evidente, non è stato e non sarà consumato- ossia adempiuto- che ciò che era già ed ovunque è nelle cose. Che ciò cui è vano opporre resistenza.

Poscriptum

Egregio Scansani,
sono Odorico Bergamaschi, ex insegnante, poligrafo- web
La ringrazio vivamente di avere dato spazio nella Gazzetta di Mantova di oggi al mio intervento titolato “ Scossa che scuote e livella”, tra le Testimonianze dei lettori, tuttavia esso vi presenta dei tagli che avrei preferito che fossero concordati con me via mail, o personalmente, oppure che venissero evitati, eventualmente cambiando destinazione e impaginazione o caratteri del mio scritto, per il semplice motivo che fanno risultare particolarmente ruvide e grezze le mie attenzioni riservate alla Diocesi di Mantova , e carenti di circospezione le formulazioni dei miei timori che non si riveli in grado di affrontare in termini universalmente cristiani la catastrofe sismica. Il passo che è stato tagliato all’altezza di “ rimaste impaurite nelle tende” era il seguente : “Ma ( la Chiesa) sarà così in grado, per non incorrere altrimenti nel discredito, di attendere a sacralizzare il secolare e a secolarizzare il sacro, come richiedono le circostanze ed è il suo compito da sempre, evitando di curarsi delle anime che stanno nelle chiese più di quelle rimaste impaurite nelle tende o che sono già al lavoro nei campi, più delle macerie dei propri luoghi di culto che di quelle di capannoni e fienili e case, e saprà spezzare il pane e versare il vino sugli altari come sui tavoli domestici e di lavoro, pregare attraverso la preghiera come attraverso il dispendio di forza lavoro e d’amore solidale? “, cui faceva seguito questa conclusione:
“Ma così, risulta evidente, non è stato e non sarà consumato- ossia adempiuto- che ciò che era già ed ovunque è nelle cose. Che ciò cui è vano opporre resistenza.”
Il brano in questione intendeva dare un respiro spirituale ad una mia preoccupazione che non è motivata solo dalle legittime riserve dei concittadini contribuenti, comunque la pensino, nel sentirsi obbligati a devolvere contributi per “salvare anche l’ irrecuperabile” del patrimonio ecclesiastico, -parola di Sgarbi, no?-, quando vi invitavo la Chiesa a non considerare eucaristica la sola comunione e condivisione della messa, a ritenere preghiera la stessa attenzione e cura di ogni nostro “essere per gli altri”, che è il cristianesimo implicito anche dell’ateo, ossia il cristianesimo “non religioso” che davvero mi preme.
In termini schietti temo infatti che anche per cause di forze maggiore e indipendenti dalle disposizioni spirituali dei nostri prelati, in parole ed opere la Curia stia immedesimando il popolo di Dio da soccorrere con i soli parrocchiani e diocesani, la Casa di Dio con i propri edifici di culto, e pur dalla mia postazione isolata, mi è parso di avvertire un’insofferenza crescente nei riguardi di tali atteggiamenti, e nemmeno tanto larvata, quando come a Poggio Rusco sento l’opposizione a Rinaldoni lamentarsi di un paese tenuto “in scacco” dalla salvaguardia “della Chiesa e di due palazzoni”, ossia in ostaggio della Curia, io leggo tra le righe.
E mi è inquietante il percepire il riemergere della nostalgia dei tempi di Don Camillo e dell’onorevole Peppone, in ciò che Sgarbi a riflettori e bollori spenti ha detto a Daniele Marconcini che lo intervistava nell’Abbazia del Polirone, quando riavviando l’intervista sento il notorio critico d’arte che suggerisce che nei paesi sindaco e prete se la vedano tra loro su come spartirsi i soldi che sopraggiungano, o in quanto si reclama in una lettera alla Voce di Mantova di questi giorni, allorché la sua autrice vorrebbe imporre al nostro Vescovo l’imperio dei suoi rimpianti memoriali, e uscita “fuor di ciclabile” invoca che la Curia di Mantova sieda nella cabina di comando degli interventi finanziari di soccorso con “ inzittibile potestà decisionale”, al fine, con una autentica crociata, di imporvi il salvataggio di ogni nostra chiesa in virtù di considerazioni puramente umano-affettive.
( E ciò mi angustia tuttora parecchio, anche se mi si può prevenire che sopravvaluto il pericolo, che ogni controversia è stata già sciolta in partenza, talmente esigui sono i flussi di spesa effettivamente disponibili o in fase di stanziamento per i nostri terremotati).
Spero che lei non me ne voglia delle malinconie ossessive che le ho diagnosticato.
In India devo vedermela a riguardo con l’opera storico-letteraria di Dalrymple, nella mia credenza che il moderno non estingua automaticamente il bello e il sacro, e che possa piuttosto ravvivarli, anzi, che spesso, con rimandi anche consapevoli, faccia rivivere in forme proprie il bello e il sacro dell’ antico e dei canoni liturgici, in opere che rimangono mirabilmente misconosciute.
Del resto lei sa più di ogni altro che “la Mantova di sempre” non è mai esistita, che nei paesi attuali della Bassa resta oramai solo una larva dei paesi in cui siamo nati ed abbiamo vissuto, e che i volti delle persone che vi abbiamo conosciuto ed amato possiamo oramai ritrovarli, quasi tutti, solo effigiati sulle lapidi delle loro sepolture cimiteriali.
Con i più cordiali saluti
Odorico Bergamaschi

Qualora intenda pubblicare questa comunicazione, per quanto mi riguarda “ ne ha piena facoltà”-

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