sabato 2 gennaio 2016

In Dang 2

L’inferno delle psicopatologie di Kailash  di cui debbo essere il” guaritore ferito”, che ne fu forse l’ infettante, ravvivano di splendore i giorni che la settimana  scorsa prima del Natale ho finito di trascorrere in Gwalior e nel suo circondario,  risalendovi in Amrol, in Dang, agli albori iconici ancora incerti dei templi hindu delle dinastie Pratihara, in Gwalior al loro fulgore estremo già raggiunto nel Teli-Ka mandir, all’intaglio nella roccia di ogni canonica minuzia scultorea nel monolite roccioso del tempio Chaturbuja lungo l erta che reca alla fortezza,  a quanto resta della disfida in grandiosità e magnificenza / splendore ai templi di Khajuraho dei nuovi sovrani Chandella  intentata dai Kachchapagata, già loro alleati e divenutine vassalli,  nei santuari al suo interno Sash e Bau, in Sihonia nel romantico avvampare ora di rovine del Kankamadh.
Di  tali escursioni, mi è ora di conforto rammentare soprattutto quella avvenuta di domenica in Dang, un remoto villaggio in prossimità  di quel Gohad Chauraha  che mi era stato preannunciato come un insediamento che più minuscolo non avrebbe potuto essere lungo l’arteria di raccordo di Gwalior con Bindh , a trenta chilometri di distanza  dall’avvio della corsa in minipullman.
Invece, nella smentita puntuale delle proprie aspettative che sa riservare così spesso l Incredibile India, quando vi sono sceso al termine di una corsa tra distese di arativi di campi  ancora  spogli,  di un interesse paesaggistico meramente agronomico, che può attirare per la sua natura fertirrigua crassa e piatta soprattutto l’acuto  interesse economico di coltivatori punjabi, tant’è che l unico edificio di  risalto apparsomi ai finestrini era stato un tempio sikh gurudvara che avevo avvistato in prossimità dell’arrivo, mi sono ritrovato in un’arteria trafficata di un sobborgo vasto  di per se quanto  una delle cittadine cresciute lungo i percorsi stradali dei Distretti indiani a me familiari,  a tre chilometri di distanza dal  grosso del centro città vero e proprio, mentre in direzione opposta una freccia mi indicava che ad un chilometro era localizzata anche una stazione ferroviaria.
In quello stesso suburbio non mancavano gli stessi atm, e ben altro che di soli biscotti avrei potuto sfamarmi, che il giorno avanti, all ingresso in Amrol,  che dall’addetto alla reception mni era stato invece prospettato come un villaggio in pieno sviluppo, degli insegnanti che il  conducente del tuc tuc aveva contattato mi avevano avvertito che era la sola cibaria che vi avrei potuto reperire, sempre che dei nativi, o loro stessi, non fossero disposti ad offrirmi da bere anche del tè.
Non mancavo inizialmente di essere sviato verso la stazione ferroviaria, dopo avere fatto scorta di banane e di guava, prima di ritrovarmi avviato , da indicazioni credibili per la loro concordanza, lungo il seguito  del percorso effettivamente da intraprendere per giungere a Dang, che era (lungo) la stessa arteria trafficatissima dei veicoli più pesanti , autobus e camion, che seguitava in direzione di Bindh, ancora avanti per non meno di tre, cinque chilometri a piedi, fattibilissimi data anche l ora meridiana in cui iniziavo a incamminarmi.
A cenni e in hindi, un primo passante che interpellavo ulteriormente mi faceva intendere che Dang  era situata sulla concrezione argilllosa dell’altura minimale che dopo tanta pianura  si profilava sulla mia destra ancora remota,  facendosi via via fascinosa, perché tra la vegetazione arborea le dimore che iniziavo a scorgervi,  nel loro sopralevarsi assumevano le parvenze di residui di antiche torri.
Come dei casali nella vastità delle campagne meridionali d’Italia,  li precedevano tra i  coltivi , che fossero minuscole case, postazioni di avvistamento di watchmen a guardia dei campi o ripostigli di arnesi, edifici a guisa tutti quanti di parallelepipedi senza seguiti di tetti o di ingentilimenti di sorta,  che avrei visto contrappuntare anche le campagne del vicino distretto di  Morena nel recarmi a Sihonia.
Mi smarrivano frecce di vistose segnalazioni in hindi, per cui per il tramite al cellulare di Kailash chiedevo conferma della esatta direzione di marcia a un giovane di grande avvenenza  che sopraggiungeva in trattore , solo poco prima che delle frecce ulteriori mi indicassero anche in inglese che la strada da intraprendere era proprio la scorciatoia sulla destra che sinuosa tra i campi recava verso quella altura,  per un tratto a piedi ancora a lungo, dove il venir meno del manto stradale  di cui restavano solo incrostazioni sparse,  si faceva la pulverulenza di  un camminamento terminale patibolare, tra le asperità del ciotolio  soggiacente al loro insussistente arco plantare.
Un passante mi offriva sulla sua motocicletta un passaggio la cui gentilezza non mi sentivo  di ricusare, proprio mentre la vista del villaggio mi si veniva slargando a distanza ravvicinata,  e così mi ritrovavo a discendere di li a poco proprio all’altezza dell ingresso del tempio, in una radura dell’addensarsi di alberi  nel cuore del villaggio.
Mentre depositavo lo zainetto presso la piattaforma del tempio, e ne ragguagliavo l’immagine alla sua riproduzione fotografica, il gruppo di anziani e ragazzi che stazionava appresso si scomponeva per venirmi incontro, com’era da attendersi che fosse , mi dicevo, senza innervosirmi o spazientirmi anzitempo per i contrattempi che la  loro curiosità poteva ingenerare, avevo tutto un pomeriggio davanti per la perlustrazione dell edificio  cui il volume di Trivedi Temples of the Pratihara Period in central India  non riservava più di tre pagine, e potevo  ben ricondurre le loro istanze alle mie., sempre che fossero loro a porsi al mio seguito, e non accadesse , come di solito avviene, che in un sopraluogo tu apra  un libro per investigare un tempio o una pianta, e i fanciulletti o i giovinotti  nativi, senza il minimo riguardo per un’attività mentale di cui non capiscono il senso,  o cui non pensano di dover portare  rispetto perchè a compierla è la bizzarria di uno straniero,nella sua inferiorità umana,  con il loro sguardo ficcante anticipino l’indiscrezione istantanea delle l domande intemperanti con cui ti interpellano,  che non possono che distoglierti dall’attività di ricerca in cui ti stai concentrando.  Ma a filtrare  l’appressarsi di ragazzi ed anziani erano due giovani  che sapevano con me interloquire in inglese, e che mi assicuravano che il soddisfacimento della curiosità e degli interessi degli astanti  non prevaricassero sulle mie esigenze di visitatore.
Dei due quello  più affabile mi informava che un mese avanti era morto il pujari del tempio che faceva da guida a chi sopraggiungesse occasionalmente, e costui  era lo stesso suo nonno paterno, il che spiegava come in segno di lutto fosse rasato il suo capo, cui accennavo come a riprova-
Da allora nessun altro era sopraggiunto da fuori a visitare il tempio, e in onore della mia venuta reinaugurale, un fanciullo sopraggiungeva con un vassoio di dolci, che ingentiliva
Ancor più l’accoglienza che mi si veniva riservando.
Venuto meno il sikhara originario del tempio insieme con la varandika,  la sua visita  avrebbe richiesto l’indagine visiva solo del basamento e delle pareti  e del portale d’accesso, con la sola complicanza, che già mi avevano riservato  i templi di Amrol,  ma che però  mi si sarebbe qui riproposta più intricata, che l’ordine delle divinità cardinali del tempio vi si era  si completato, oltre le tre soltanto che nel più antico tempio di  Amrol , il Ramesvara, avevano conseguito tale insediamento tutelare,  ma con solo Agni, Yama e Nirriti posizionati nel lato direzionale che sarebbe stato il loro, definitivamente. Come si era verificato nel tempio di Amrol più tardo il Danebab, vi si sarebbe ripresentato Surya,  per uscire di scena poi nei templi posteriori, ma  invece che occuparvi, come nel Danebaba,  il sito che sarebbe stato presocché per sempre quello di Isana, vi sarebbe comparso in luogo dello stesso re Indra nell’angolo est- sud dove costui si sarebbe stabilizzato permanentemente. Il seguito  delle divinità a guardia del tempio mi avrebbe riservato, per  giunta, tutta una serie di  irregolarità  ulteriori rispetto al posizionamento  cardinale/ direzionale  che sarebbero divenuto quello in pianta stabile degli altri dikpalas,. Vayus vi  occupava ( occupava) (ndovi l’angolo) avrei infatti dovuto ricercarlo  nell’angolo che sarebbe divenuto di Varuna,, in luogo del quale avrei dovuto vedere comparire Hari-hara, per trovarlo essendovi invece insediato nell’angolo di nord-est che  sarebbe divenuto il presidio definitivo di Kubera., mentre in seguito, se tutto tornava, avrei visto una divinità femminile non meglio precisata prendere  il posto che sarebbe stato quello poi fisso di Isana
Ripresa l opera del Trivedi , con i miei due accompagnatori ed i ragazzi che mi restavano appresso, cui si univano via via   degli anziani incuriositi e interessati,  tra svarioni vari e ravvedimenti repentini, a iniziare dalla confusione di Surya con l immagini che invece era di Brahma che campeggiava nella kapili settentrionale del vestibolo, stupefacentemene  mi disciplinavo a meraviglia  nell’apprendere dando apprendere, al tempo stesso in cui  scoprivo che come il  secondo dei templi di Amrol, dall epoca altomedievale della sua fondazione era rimasto per i nativi un tempio di culto vivente di cui si era persa ogni memoria o consapevolezza dell’identità degli dei che vi erano scolpiti.
Mi si era fatto subito cenno a Krishna dadhi-manthana,  intento alla angolatura del latte con la madre Yasoda, in una formella dislocata incongruamente sopra il portale d’accesso, talmente travalicante è la popolarità della sua ghiottoneria birichina del  burro delle gopi, di cui non avrebbe tardato a derubare i cuori stessi fattosi giovinetto,  e come non ravvisare Ganesha nella prima delle divinità di stanza nelle proiezioni centrali, ma quanto alle stesse divinità cardinali, o a Kartikkeya riconoscibile per il pavone che alimenta, quale suo veicolo, o a Parvati in Pancha-agni-tapas nelle altre nicchie principali, le cui immagini vi erano di stanza a completare il consesso famigliare del dio Shiva cui il tempio era dedicato, come già in Amrol, o Batesara, o Naresar, secondo un’ordinanza canonica che avrei ritrovato nelle nicchie inferiori del basamento dell’ adhisthana  del tempio Chaturbuja di Gwalior, in cui soggiacevano a quelle superiori di Vishnu e di due sue incarnazioni, essendo tale tempio  in onore dell onnipervadente,  talmente si era stabilizzata negli ordinamenti iconografici delle maestranze templari,  ciò che dicevo illuminava le menti degli astanti come una rivelazione originaria.
Errori smentiti, ripensamenti, correzioni in corso di visualizzazione  e ribadite stabilizzazioni interpretative , ma tutti sembrava concorrere ad assicurarmi l’attento riguardo di un seguito indefettibile e ammirato,  che cercavo di accalorare della mia passione emozionata, alla vista dei mirabili ornamenti delle nicchie e della magnificenza della viridiscenza vegetativa dei pilastri laterali - prati-rathas  che ne monumentalizzazavano il risalto, ancora gremiti della vitalità naturalistica dei rilievi Gupta,  forse una primizia del tempio di Dang, tale ricorso a guisa di paraste dei prati-rathas, come nel fasce del portale quello di bande in forma di pilastri o stamba-sakhas, di cui un sikhara fosse il coronamento terminale. E come non esaltare il dispiegarsi  a ruota retrostante del piumaggio del pavone di Kartikkeya , a  suo insediamento in un trono di gloria che ne irradiava il fulgore divino?
Già a quello dei due fratelli che mi era più amichevole, avevo alluso alla bellezza incantevole dei motivi decorativi delle tulas che soggiacevano ai pratirathas lungo la modanatura dei kalasas, o alle carenature degli udgamas che sormontavano le nicchie, assumendovi vivaci sembianze leonine in quelle delle nicchie centrali, al tempo stesso in cui gli indicavo il  tetto di un  edificio vicino le trabeazioni che ne sporgevano, le  sciahtir,  per  fargli intendere che ne imitavano nella pietra le testate ornamentate che fregiavano i templi hindu lignei originari. Ne avrei avuto un ricordo struggente il giorno seguente in Sihonia ,  quando l’immensità immane del Kankamadh mi si sarebbe ridimensionata, momentaneamente, alla vista del degrado della finezza della grafica scultoreadelle tulas che vi comparivano oramai come un residuo  arcaico, in epoca avanzata Kacchapagata, al pari di come in una immagine ingrandita gigantescamente la risoluzione bassa dei dettagli la sgrana in una ricampionatura rovinosa..
Una giovane signora indiana , proveniente dall’America, e nativa di gwalior, vi avrebbe invece invertito i  ruoli che in Dang mi aveva conferito presso i nativi la mia pur tormentata cognizione iconica delle loro divinità scolpite, quando all uscita dal garbagriha dove si era prosternata in adorazione del linga  al seguito di un  gruppo di ragazze che vi avevano recitato una litania di mantras, mi faceva presente che la pradakshina che aveva appena compiuto non si prestava all adorazione di Shiva, e che avrei dovuto invertirne in un secondo tempo il corso in senso antiorario, così come mi era imposto ogni volta, senza che ne avessi tratto il debito insegnamento, dalla piattaforma circolare che nel Matanghesvara recava sino alla scalinata d’accesso al linga superiore, intorno al quale era d’obbligo poi ruotare in senso contrario.
Le pareva buona cosa che in Sihonia, come in Mitaoli, Padhavali o Batesara , non vi fossero  che  visitatori indiani, e la mia esperienza della  realtà devastante dell’ attratività turistica di Khajuraho mi induceva a darle conferma mentre ci congedavamo, pur se poco prima avevo fatto redarguire da un indiano due ragazzini che stavano scalando una parete dal tempio, mentre un uomo stava discendendo da una delle nicchie centrali dove per farsi fotografare aveva preso il posto della statua dells divinità che vi era un tempo riposta. Degno emulo delle coppie che incorniciano il loro amore entro gli archi dei mirhab delle moschee monumentali di Delhi.
In  Gwalior avrei poi assistito all ingresso seriale  al  Teli-ka-mandir. di gruppi di ragazzi che ne varcavano il recinto solo per scattarvi selfie e foto amicali di cui il tempio per cui non avevano occhi non era nemmeno lo sfondo, e nei templi  Shash Bahu all irrompervi  comitive studentesche che vi transitavano solo per  riempirli del loro chiasso berciante, od appollaiarsi e sfilare lungo le trabeazioni di supporto dei grandi pilastri del mandapa centrale.
In  Dang invece, come già in Amrol , preso il Danebaba,  mi si veniva a distanza al seguito, mi ci si faceva accanto per condividere la mia ricerca, farmi domande, mi si conveniva intorno, terminata la visita, per la serie di domande che dettava loro la  curiosità, dopo che un ragazzo era statio incaricato di recarmi del the con dei biscotti. Quanti altri paesi avevo visitato’ Da quando l india era diventato il mio approdo permanente? ED eero stato in Pakistan? Com’era sta con me la gente del Pakistan? “ Come voi, rispondevo  sorridendo, con un dito volto circolarmente, accennando al loro grato radunarmisi intorno. Per  curiosità ed interesse i pakistani giovani  mi si facevano talmente addosso, dicevo, che a volte era dovuta intervenire la polizia. E vi avevo trovato templi hindu? No, a onore del vero, neanche uno, oltre le moschee soltanto delle chiese cristiane, presidiate dalle forze dell’ordine. Ma lungo la frontiera vi sono luoghi dove ihindu e islamici pregano negli stessi templi, come a Delhi sulla tomba di Sultan Ghari, o nella Firouz Shah KKotha. Erano ben consapevoli, di ciò che aggiungevo , che le cose vi si fanno gravi se uno lascia la propria religione. Islamica per unì’altra religione. In India  ritenevano che non dovessi avere avuto problemi a professarmi cristiano, come confermavo, pur non tacendo  delle difficoltà e delle paure rivelatemi da altri cristiani, E gli indiani nel mondo? E  i loro mandir? Ne avevo incontrati molti nel mio stesso paese, provenienti dal  Punjab, addetti ai lavori dei campi ed alla mungitura, altri insediati in ogni parte del mondo, dove i templi che costruiscono spesso riuniscono i loro tratti hindu a quelli di chiese, di moschee, luoghi di culto buddisti, per significare che molte sono le religioni, ma uno solo il loro Dio.
Gli astanti mi accreditavano oramai di un  tale grado di conoscenza delle universe vicende e delle loro vestigia culturali, che si passava a chiedermi che cosa mai concernessero le lastre allineate a noi accanto ai bordi della attuale piattaforma del tempio. La mano aperta jn rilevo nella parte sovrastante mi faceva ritenere, come loro attestavio, che potesse trattarsi, come già in ERan, di lapidi commemorative del sacrificio di qualche sati  consuma negli antichi tempi , come loro convenivano persuasi.
L’ora era già tarda, e mi si provvedeva un passaggio in motocicletta fino a Gohad Chauraha., non senza prima avermi lasciato in dono un pacco di dolciumi, e che scambiasi le mie generalità e il mio recapito in facebook con i due  fratelli che seguitavano a fungermi da tramite.
V’era tuttavia ancora il tempo perché con un seguito appresso mi si portasse in giro per il villaggio, a vederne le case che dei miei accompagnatori erano le abitazioni, da cui mi si facevano incontro le donne di casa, dai bancali frontali, i chabutri, estesi quanto giacigli, le stalle e i covili dei loro animali, tra cui le capre più care con cui si facevano fotografare, i cumuli simili a covoni di pani di sterco e i capanni che ne erano i depositi,  un  santuario all’aperto ricavato dai resti del tempio.
Dove mi attendeva l uomo che con la sua motocicletta mi avrebbe trasportato, uno zio dei due ragazzi, che trepidamente e teneramente  mi ci avevano condotto per mano, erano radunati degli uomini intorno a un fuoco, degli anziani che erano le autorità del villaggio con i quali, sedevo a riscaldarmi al calore delle fiamme. Avevano tutti quanti prestato servizio nell’esercito mi si diceva di loro.
“ Ed hanno essi combattuto contro il Pakistan? chiedevo sollevando l’ilarità circostante.
No, si smentiva, nel congedo finale
“ Finora, chiedevo al giovane che mi era più caro di tradurre per tutti, cui avevo appena confidato che mi era stata da loro donata una delle giornate più belle di tutta la mia vita, forse una delle dieci più meravigliose,  Dang era solo il nome di una località scritta  su un libro. Ora resta scritto ancor più nel mio cuore”



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