domenica 22 settembre 2013

Gloria degli uomini e gloria di Dio nell' Ethica di Spinoza




Odorico Bergamaschi
Gloria degli uomini, Vanagloria, e Gloria di Dio in Spinoza

Odorico Bergamaschi

Gloria degli uomini , VanaGloria, e Gloria di Dio in Spinoza

Nell’Ethica di Spinoza la Gloria è considerata  per il ruolo che la sua ambizione assolve nell’asservimento o nella liberazione degli uomini, entro l’ordine comune della Natura di cui fanno parte ed in cui rientrano gli stessi ordinamenti sociali e politici,.
In Natura, nell’ordine e nella connessione sociale delle idee, la lode o il biasimo degli altri per le nostre azioni ed opere è ciò di cui ci Gloriamo o ci vergogniamo ( Ethica, III, definizioni XXX, XXXI).
Lode, o Biasimo, suscitando idee di Gloria, o di vergogna, felicitano o rattristano  la nostra Soddisfazione interiore, o Acquiescentia, intensificandola o deprimendola.
Gloriarsi è una nostra felicità, in sè, e come ogni felicità corrisponde ad un incremento di potenza e di perfezione, dunque è  buona cosa, sempre che  non sia eccessiva,  e sempre che  ad originarla, in un contesto conveniente, sia ciò che è onesto, ossia ciò che giova anche a perfezionare gli altri uomini. Per la naturale tendenza dell’ uomo a trarre piacere dal fatto di piacere agli altri,           ( Ethica, III, XXIX, Scolio“), un  circolo virtuoso si instaura dove sia vigente Cortesia, o Humanitas, ( Ethica, III, XXIX; Scolio), ogni qualvolta ci fa felici di essere  lodati e amati dalle persone che amiamo, per  la felicità stessa che origina in loro ciò che di favorevole, alla vocazione della loro natura, abbiamo compiuto a loro vantaggio. In queste circostanze l’amore e la gioia  reciproca sono pertanto la felicità di  un incremento reciproco della nostra potenza  di conoscere e di agire, e buona è  tale Gloria e la sua ricerca.       
E’ questa la dinamica deterministica virtuosa del retto uso della Gloria a cui Spinoza invita nello Scolio della Proposizione X del libro V dell’Ethica, quando elabora i principi di un retto metodo di vivere, da memorizzare e mettere in pratica, finché non si abbia una conoscenza perfetta degli affetti della natura umana, ossia dei modi in cui la nostra  potenza di agire  è incrementata o diminuita dalle cause esterne che agiscono su di essa.
La Cupidità di piacere agli uomini è allora la Modestia della Moralità, o altrimenti a dirsi della Generosità, ( Ethica, III, LIX, Scolio),  l’anelito di fare il nostro bene  facendo il bene altrui (Ethica IV, XXXVII, Scolio), così  unendo a se gli altri uomini in amicizia.
 L’uomo che è animato da tale anelito alla Gloria è virtuoso perché cerca innanzitutto l’Amore degli altri  per il bene che reca loro, e non è mosso principalmente dall’aspirazione “di suscitare la loro ammirazione, affinchè una dottrina porti il suo nome, in generale, di dare alcun motivo di Invidia” ( Ethica,IV, Appendice, capitolo XXV).
In unità di amicizia,  la Gloria di questo mondo, è la modestia della Humanitas cui è immanente l’anelito allo scopo più alto, che per Spinoza è di godere insieme con quanti più uomini è possibile del sommo bene. Tale sommo bene è l’altro ordine di Gloria dell’Ethica di Spinoza,  la Gloria di Dio dei testi delle Scritture. Essa va reinterpretata secondo la scienza di Dio di Spinoza per la quale la Divinità è inseparabile dalla Natura,  e dunque da noi uomini, di cui è  causa, principio e fondamento, per cui ne dipendiamo continuamente per la nostra essenza ed esistenza.  La Gloria di Dio ci fa pertanto di sé partecipi quando ci eleviamo alla nostra più alta conoscenza, la conoscenza intellettuale  di Dio come causa della nostra natura, che di Dio ingenera un Amore costante ed eterno. E’ la nostra salvezza e  libertà raggiunte nell’Amor Dei Intellectualis, in cui, per mezzo della Mente, è Dio medesimo, in noi al fondo,  che volgendosi a se stesso  come nostra causa, ama se stesso di Amore infinito, al contempo in cui essendo in noi ed essendo per causa nostra che si ama, ci ama del medesimo infinito Amore.  L’Amore di sé dell’iniziale Soddisfazione Interiore  della nostra Gloria terrena, si rivela, così perfezionandosi,  una parte dello stesso Amore di sé di Dio,  ch’è la stessa beatitudine della Gloria divina di cui parlano le Scritture.
Ma lungo l’itinerarium mentis ad Deum  in cui Spinoza ci insegna “come l'uom si eterna” nella sua vera Gloria, prima che tale perfezionamento trovi la teoreticizzazione del suo compimento nel libro V dell Ethica, egli ci viene invece ammaestrando come l’uom si perde nella VanaGloria.

Infatti ciò che può farci più attivi e potenti, e che può rendere la nostra mente più capace di conoscere, è ciò stesso che può renderci passivi, e ridurci nelle forme estreme di impotenza.( Ethica V, IV, Scolio). Pertanto la ricerca della Gloria degli uomini  che può elevarci fino alla Gloria di Dio, fino ad eternarci nell’Amor dei intellectualis, in cui la nostra felicità diventa beatitudine, ed è la beatitudine medesima di Dio, dell’Amore di sé divino che in noi si invera, (di cui ci facciamo espressione nell’amore di cui l’ amiamo e in cui egli si ama come nostra causa), se tale aspirazione di Gloria si fa una letizia eccessiva o ci depotenzia nelle passioni delle nostre tristezze, può invece asservirci alle forme estreme di follia della mente che sono gli opposti, spesso solo apparenti, della Superbia dell’Ambizioso o dell’Abiezione di chi di sé si vergogna intensamente, con l’aggravante, rileva Spinoza, che benché  l’Ambizione sia una specie di autentico delirio, come l’Avarizia, o la Libidine, non  appare tale agli uomini, che non l’annoverano tra le loro malattie ( Ethica, IV, XLIV, Scolio, Ethica III, XXVI, Scolio).
Tale VanaGloria, coltivata dall'educazione stessa, “giacché i genitori sono soliti spronare i figli alla virtù mediante il solo stimolo dell’Onore e dell’Invidia” (Ethica III, 55, Scolio),  inizia ad insinuarsi come si fa eccessiva  la Soddisfazione interiore che originano le lodi degli altri, e quando, ad originarla, non è la Cupidità di piacere agli uomini della Modestia dell’Onestà che è Humanitas, o Cortesia, che  aspira  all’amore degli altri uomini perché ne causa il bene, ma  (è) la Cupidità di piacere agli uomini, e di esserne lodati,  a causa del fare od omettere cose a danno proprio e al contempo altrui (Ethica III, XXIX, Scolio),  pur di piacere in particolare  alla moltitudine superstiziosa del volgo, come rileva Spinoza a più riprese  nell’ Ethica, secondo la lunghezza d’onda della critica del potere teologico politico che  ispira il suo grande Trattato Teologico-Politico (Ethica IV, LVIII, Scolio). Il volgo è infatti incostante nei suoi umori, e l’Ambizioso, se vuole conservare la sua buona reputazione nell’opinione dellle moltitudini, deve assecondarne la mutevolezza continua, in competizione accanita con gli altri che ne contendono a lui i favori, e “ da ciò nasce un’enorme sete di opprimersi a vicenda in qualunque modo, e chi alla fine riesce vincitore, si Gloria d’aver più nociuto agli altri che d’aver giovato a se stesso. Questa Gloria, dunque, ossia questa soddisfazione è veramente vana, perché inconsistente”. Il Teologo o Politico che intende soddisfare la sua Ambizione conformandosi al volgo, porta alle sue estreme conseguenze la nocività distruttiva ed autodistruttiva della VanaGloria, vanificante il bene proprio ed altrui, poichè finisce per trarre soddisfazione dalla felicità smodata di avere portato alla disfatta il nemico, nel contendersi i favori delle moltitudini, anzichè, generosamente, dall’avere fatto il bene degli altri assecondando il proprio. L’ Ambizioso, altrimenti, secondo l’appetito comune a noi tutti  (Scolio della Proposizione XXXI, Terza Parte dell’Ethica), che gli altri vivano secondo il proprio modo di sentire, appetisce la lode degli altri per la contentezza che costoro trarrebbero dal conformarsi a lui,  solo che non essendo guidato dalla ragione, vorrà che si conformino a ciò che non è  meno dannoso e molesto a se stesso che  agli altri. ( Scolio a Ethica V, IV, o , differentemente, Ethica, III, XXXI, Scolio, ove tale Aspirazione  univocamente è sempre Ambizione, di cui la stessa Modestia  altrove è una manifestazione misurata ( Ethica, IV, Definizione degli affetti XLVIII, Spiegazione).
L’Ambizioso, o Vanaglorioso, crede in tal caso di suscitare un piacere che è tale soltanto nel suo immaginario, mentre reca agli altri esclusivamente danno, e per trarne ancora più soddisfazione, insisterà  ancora di più, rendendosi ancora più nocivo e molesto (Ethica.III, XXIX., Scolio)
L’Ambizioso, o Superbo, persevera così facendo, perché presume di essere più di quello che non  è (Def XXXVII ), sopravvalutando se stesso al tempo stesso in cui svaluta gli altri. Per rinforzare la sua presunzione, a dispetto di ogni evidenza si circonderà di parassiti o adulatori ( con quale garbo, va detto,  Spinoza ne omette la definizione perché ritiene che siano finanche troppo noti), mentre rifuggirà gli uomini generosi e la loro sincerità (  Ethica, IV, LVII). Egli “ si compiace solo della presenza di coloro che assecondano il suo animo impotente e che da stolto lo rendono pazzo”.(ibidem)
La sua esaltazione è  tale,  allora, che diventa una autentica forma di delirio, per cui l’uomo sogna ad occhi aperti di poter fare tutte le cose che egli compie solo in immaginazione ( Ethica, XXVI, Scolio).
L’ Ambizione,- ossia , com’è definita altrimenti, la Cupidità immoderata di Gloria, - essendo una Letizia eccessiva, sfrenata, come tale è più che mai difficile da contrastare per chi ne è affetto, perché alimenta tutte le altre sue affezioni. A proposito, Spinoza cita Cicerone, per affermare che i migliori sono più degli altri guidati dalla Gloria. E ne trae la notazione di come gli stessi filosofi mettono il loro nome sui libri che scrivono sul disprezzo della Gloria, smentendosi nel loro biasimo all’atto stesso di intestare il libro su tale disprezzo( Ethica III, Definizione 44 degli Affetti), come fanno innumerevoli maestri odierni di saggezza spirituale,- se mi è dato di aggiornare la disamina di Spinoza-, che raccolgono fama, ricchezza e successo con l’insegnamento ai propri discepoli di ridursi al fallimento integrale, fino a non essere più nemmeno qualcuno in grado di soffrire.
Ma a vociferare contro la Gloria, sono anche gli Ambiziosi che sono impotenti a conseguirla, disperandone essi diventano Iracondi, e presumono di apparire sapienti quanto più criticano l’abuso di Gloria e la vanità del mondo.
Il disprezzo della Gloria di questo mondo contraddistingue anche gli animi deboli degli Abietti, la cui Vergogna di sé dipende dal sentimento del disprezzo che gli  altri nutrirebbero nei loro confronti, per cui tengono conto di se stessi meno del giusto. Ma secondo l’analisi di Spinoza, tale senso infimo di sé è sempre relazionale, può infatti dipendere dal fatto che l’Abietto immagina, a causa della sua debolezza,  “ di essere disprezzato da tutti, e ciò mentre gli altri a nulla pensano meno che a disprezzarlo” ( Ethica, III, Definizione 28 degli Affetti), o altrimenti può dipendere  dal fatto che egli svaluta se stesso perché sopravvaluta gli altri, che il senso della sua impotenza nasce da un’eccessiva stima  degli altri,  in quanto “ giudica la propria impotenza dalla potenza, ossia dalla virtù degli altri” ( Ethica IV, LVII, Scolio).
Ecco perché la sua tristezza trae conforto dal potere immaginare che siano viziosi anche coloro che stima eccessivamente, “ donde è nato quel proverbio: è un sollievo per i miseri avere dei compagni di sventura”(ibidem).
Nessuno è più incline all’Invidia  degli Abietti, secondo Spinoza,  al punto che suppone nell’Ethica che l’estrema Abiezione spesso sia più apparente che reale, e che coloro che sono creduti estremamente Abietti siano di fatto estremamente Ambiziosi ( Ethica, III, XXIX, Spiegazione), o che Abietto e Superbo siano ravvicinabilissimi e ravvicinatissimi dalla comune Invidia, benché le loro passioni siano l’una contraria all’altra, la Superbia essendo una felicità eccessiva e l’Abiezione una tristezza estrema.

La VanaGloria dell’Invidioso è l’ estremo dell’insocievolezza, perchè trae soddisfazione solo dalla mancata condivisione di ciò che vale e che giova, dal  fatto che l’Invidioso possa sentirsi superiore ai propri pari per qualcosa in sè di singolare, che nega degli altri. Egli può salvaguardare intatto tale senso di superiorità, finchè gli è  dato di godere della debolezza dei suoi pari, mentre lo indebolisce ogni constatazione dei loro pregi,  sicchè, arguisce Spinoza,egli si sforzerà di allontanare questa Tristezza, sia interpretando malamente le azioni dei suoi pari, sia abbellendo le sue, per quanto può” ( Ethica, III, LIV Scolio). L’eccesso di affezioni liete, superiori alla nostra potenza, ingenera nella Mente un sovrappiù di immagini, che cominciano pertanto a confondersi. La letizia eccessiva dell’Ambizioso che è al tempo stesso Invidioso, in luogo delle nozioni comuni delle proprietà comuni delle cose, su cui si fonda la conoscenza intellettuale, origina allora le astrazioni immaginative dei Termini Trascendentali, come Ente, Cosa, eccetera, e le Idee Universali come Uomo, Cavallo, Cane ( Etica II, XL, 1; De Intellectus Emendatione LII), Si tratta di immagini-modello  generali,  assunte a forme archetipiche normative delle cose, che si formano a seconda delle disposizioni passive differenti del proprio Corpo, e negli Ambiziosi che per di più sono Invidiosi, diventano  le idee stesse che scatenano gli antagonismi interumani e le controversie  dei filosofi, perchè costoro vogliono di conseguenza piacere,  essere amati, creduti ed onorati dagli altri, proprio universalizzando in tali idee immaginarie di uomo e tentando di imporre conformisticamente agli altri, le affezioni che più li differenziano e li singolarizzano, rendendoli più contrari  gli uni agli altri.



Ponendo a raffronto il Superbo e l’Abietto, Spinoza rimarca che mentre il Superbo loda e Gloria se stesso, disprezzando gli altri, e “ non racconta di sè se non le proprie virtù, e degli altri se non i vizi, e vuole essere preferito a tutti, l’Abietto riserva lode e Gloria alla propria Abiezione”, ossia, - se ne ricapitoliamo quelle che secondo Spinoza ne sono le manifestazioni, all’essere egli“ l’umile che arrossisce assai spesso, che confessa i suoi vizi e racconta le virtù degli altri, che cede il passo a tutti, e che infine, cammina a capo basso e trascura di ornarsi” e “ per eccessiva paura della vergogna non osa ciò che osano altri suoi pari”( Ethica, III, Definizione degli Affetti, XXIX, XXVIII).
Solo l’immaginazione vergognosa di sé dell’Abbietto, in conformità totale a  ciò che immagina che gli altri pensino di lui, o che gli altri siano a differenza della sua debolezza, per Spinoza può indurre l’uomo a tali forme di Lode e di Gloria di sé, proprio per ciò che egli è nei propri stati di estrema impotenza e di tristezza, perchè la natura umana in sé, “si ribella” contro tali stati di Umiltà e  Abiezione , nessuno, infatti “ per odio di sé , tiene conto di se stesso meno del giusto, in quanto immagina di non potere questo e quello”, non fosse per la  idea di sé che formiamo in rapporto a ciò che immaginiamo che gli altri pensino di noi,  o che più di noi siano capaci di fare o di essere.
Di Spinoza è talmente consequenzialmente impietosa e inesorabile la considerazione della natura umana a riguardo, che a tal punto sente l’esigenza di avvertire i lettori che sta considerando gli affetti umani, e le loro proprietà, alla stessa stregua delle cose naturali, che dunque desume  le conseguenze di ogni nostra tristezza o letizia, come “ dalla natura del triangolo segue che i suoi tre angoli sono uguali a due retti”, e sente l’urgenza di rammentare loro che il solo criterio di valore che l’ orienta è l’utilità umana ( Ethica IV, LVII, Scolio). Ed  è secondo tale criterio,  in ragione della nostra convenienza ad essere utili l’uno all’altro, potenziandoci a vicenda, che Spinoza è critico della Vanagloria quanto lo  è del disprezzo della Gloria umana,  dato che l’utile reciproco richiede lo sforzo, soprattutto, di osservare le azioni degli uomini più per correggerle che per censurarle, al contrario di ciò che fanno gli Abietti.
 Occorre considerare infatti le virtù più che i vizi umani, se il nostro reale intento è di lasciarci guidare dalla ragione nel governo dei nostri affetti ed appetiti, grazie al solo amore della libertà. Solo se procederemo in tal senso, infatti, è alle virtù e alle loro cause che guarderemo,  per godere della loro conoscenza e della vita in conformità ad esse, più di quanto non ci compiaceremo di considerare i vizi degli uomini,  per godere di quella falsa specie di libertà che consiste nell’abbassare gli uomini” hominesque obtrectare” per elevarci a loro danno.
(Ethica V, 10, Scolio).
Fine


Altre considerazioni spinoziane in tema di Gloria

Ho così  raccordato, nella loro dinamica, gli Affetti di gioia e di tristezza che originano la ricerca della Gloria umana e la Vanagloria, e la cui soddisfazione interiore trova la sua perfezione nell’Amor Dei intellectualis.
I teologi delle varie religioni per assoggettare ai cupi sogni di Gloria del  proprio potere teologico- politico le moltitudini del volgo, devono assecondare le manifestazione di Speranza, di Paura, di Umiltà, di Pentimento, della Superstizione del medesimo volgo, cosi terribile se non ha paura “ terret vulgus, nisi metuat”, asserisce Spinoza citando Tacito. A sua volta la moltitudine del volgo asseconda le ambizioni di Gloria del clero finchè ne può essere alimentata la credulità che i teologi, e i loro “predikanten”, siano depositari della rivelazione diretta di Dio in parole e opere. Essa si manifesterebbe nelle Scritture ritenute Sacre, che in ogni loro lettera  sarebbero la parola di Dio, di cui tali pastori e guide siarrogano di essere i soli legittimi interpreti.  Le altre principali manifestazioni di Dio assoggettanti sono i miracoli, compiuti  contro natura dalla mano immediata di Dio, e che i religiosi certifichino come veramente accaduti, o altrimenti sono le loro virtù profetiche, o la loro ispirazione divina grazie ad un  presunto lume soprannaturale. E’ per affermare la libertà di pensiero minacciata dalle autorità dogmatiche  e dai loro sostenitori politici nella libera Repubblica d’Olanda dei suoi tempi, che Spinoza scrisse  il Trattato Teologico –Politico.


Come egli confessò  nella prefazione al  De intellectus Emendatione, debole era il lui l’attaccamento alla Gloria terrena, che pure anima a suo giudizio i migliori spiriti, quanto intenso era l’anelito alla Gloria biblica dell’Amor Dei Intellectualis. Avrebbe potuto altrimenti affrontare l’oltraggio recato dai  poteri teologico-politici e dagli uomini del tempo alla sua ricerca filosofica ed alla sua persona? Disebraicizzato dall’herem della scomunica inflittagli dalla Comunità ebraica di Amsterdam, costretto a differenza di coloro di cui disse che ripongono il proprio nome nella copertina delle opere in cui disprezzano la Gloria, ad attribuire un’identità falsa all’autore del proprio Trattato Teologico-Politico, per evitare la tortura e il carcere, o il patibolo,  messo al bando degli uomini con la sua opera, quando si scoprì che ne era l’autore, costretto a non dare mai alla luce in vita la propria Ethica somma; essendo egli rivoluzionario ed empio, perchè era il fautore intransigente e coerente  della più onesta vita morale, votata alla libertà rischiarata dalla luce della ragione, e insieme da una religione ispirata dai soli principi fraterni di giustizia e carità.

  Dalla mia tesi

VIII. Passioni.  Le Letizie eccessive

 

Il tipo ulteriore di Passioni è dato dalle Gioie immoderate. Se una o più parti del Corpo, come della Mente, sono affette più delle altre da dei corpi esterni e dalle loro idee, si  determina una Gioia eccessiva o Titillatio del Corpo. la cui potenza, essendo più forte di quella degli altri atti del Corpo e della Mente, si fissa tenacemente, impedendo al Corpo di essere affetto nei moltissimi altri modi che non consentono alla Mente di concepire adeguatamente ( Etica IV, 43, 39).

   L’Amore e la Cupidità eccessive che ne derivano sussumono sotto di sé la Mente ed il Corpo, fissando la natura dell’ uomo nella considerazione di u n solo oggetto e nell’ attaccamento ad un solo affetto.

E’ il caso dell’Avarizia, dell’ Ambizione, della Libidine, della ricerca smisurata ed esclusiva, fine a se stessa, di onori, ricchezze, piaceri. ( Etica, IV, 43, 44).

   Nella Titillatio le forze  esterne non favoriscono lo sviluppo della nostra potenza assoluta di agire, la quale soltanto ci consente di sussumere, sotto le sole leggi della nostra natura, gli stessi affetti esterni che ne hanno assecondato l’affermazione.

   Potenziando eccessivamente una o parecchie parti soltanto del nostro Corpo, queste Gioie o Letizie passive impediscono le altre azioni del Corpo e le percezioni adeguate della mente, determinando la nostra forza ad esprimere la potenza prevalente delle cose esterne.

“ Strumento passivo delle cause esterne che l’utilizano per realizzare i propri effetti, l’uomo è forte e cionostante impotente”, asserisce a commento Mugnier Pollet ( Mugnier Pollet, 1976:97).

L’eccesso di affezioni liete, superiori alla nostra potenza, ingenera nella Mente un sovrappiù di immagini, che cominciano pertanto a confondersi. La letizia eccessiva dell’Ambizioso che è al tempo stesso Invidioso, in luogo delle nozioni comuni delle proprietà comuni delle cose, su cui si fonda la conoscenza intellettuale, origina allora le astrazioni immaginative dei Termini Trascendentali, come Ente, Cosa, eccetera, e le Idee Universali come Uomo, Cavallo, Cane ( Etica II, XL, 1; De Intellectus Emendatione LII), Si tratta di immagini-modello  generali,  assunte a forme archetipiche normative delle cose, che si formano a seconda delle disposizioni passive differenti del proprio Corpo, le quali negli Ambiziosi che per di più sono Invidiosi, diventano  le idee stesse che scatenano gli antagonismi interumani e le controversie  dei filosofi, perchè vogliono piacere,  essere amati, creduti ed onorati dagli altri, proprio universalizzando in tali idee immaginarie e tentando di imporre conformisticamente agli altri, le affezioni che più li differenziano e li singolarizzano, rendendoli più contrari  gli uni agli altri.

   L’eccesso di un’affezione parziale di Gioia, superiore alla nostra potenza, implica nella Mente un eccesso di immagini rispetto alla sua potenza immaginativa, che cominciano pertanto a confondersi .Soprattutto nelle Letizie eccessive , in luogo delle nozioni comuni delle proprietà comuni degli enti, hanno così origine le astrazioni immaginative dei Termini Trascendentali, come Ente, Cosa, eccetera, e le Idee Universali come Uomo, Cavallo, Cane ( Etica II, 40, 1; De Intellectus Emendatione 42).

   Si tratta di immagini-modello  generali,  assunte a forme archetipiche normative delle cose, che da ciascuno sono formate a seconda delle disposizioni passive differenti del proprio Corpo, le quali sono le idee stesse che scatenano gli antagonismi interumani e le controversie  dei filosofi, quando vogliamo essere amati, creduti ed onorati dagli altri, proprio in ciò in cui più le affezioni più ci differenziano e ci singolarizzano, rendendoci più contrari  gli uni agli altri.

   Le principali Sollecitazioni eccessive definite da  Spinoza sono la Stima eccessiva, la  Superbia, che è una forma di Stima eccessiva, l’Ambizione, la, la cieca Audacia,  l’ Ingordigia, l’Ubriachezza, l’Avarizia e la Libidine.

  La Superbia è la Stima eccessiva di se stessi in chi si ritiene superiore agli altri solo perché li considera meno del giusto( Etica III, Definizione 28 degli Affetti; Etica IV,  57). E’ pertanto il contrario della Umiltà.

    L’Ambizione è invece l’eccesso  della stessa modificazione delle Cupidità che è costitutiva della nostra socialità  individuale,  è infatti la modificazione immoderata dell’ Appetito di una cosa  che si genera in noi per imitazione degli Affetti dei nostri simili ( Etica III, 27).

   L’immaginazione di un  affetto di un  Corpo esterno simile al nostro esprime infatti un’affezione del nostro corpo che è simile a quest’affetto, come è possibile rilevare già nel transitivismo del comportamento infantile:

Sperimentiamo, infatti, che i bambini, il cui corpo si trova continuamente come in equilibrio, ridono e piangono solo perché vedono ridere o piangere gli altri; e tutto ciò, inoltre, che vedono fare ad  altri , subito desiderano imitarlo, e infine desiderano per sé tutto ciò di cui immaginano che altri si dilettino; e ciò perché le immagini delle cose sono, come abbiamo detto, le affezioni del Corpo umano, cioè i modi in cui il Corpo umano è affetto dalle cause esterne ed è disposto a fare questo o quello ( Etica, III, 32, Scolio)”.

  Basta pertanto che noi immaginiamo l’ Amore o la Avversione di un nostro simile per una cosa, perché  anche noi amiamo questa cosa o l’abbiamo in odio.

E’ l’Emulazione questo semplice sforzo che compiamo per piacere ai nostri simili ( Etica, III, definizione 32).

Ma noi possiamo allietarci  ancora  di più a causa dell’ imitazione degli affetti di gioia nei quali i nostri simili, da noi sollecitati,  già ci emulano a loro volta, godendo della Gloria di essere elogiati ed amati da essi, come la causa  della loro Gioia ( Etica III, definizione 31 degli Affetti).

   L’ Ambizione è di conseguenza l’ulteriore sforzo immoderato della Cupidità  volto a che ciascuno approvi od abbia in odio ciò che noi emuliamo od irridiamo, allorché per esagerato o cieco amore di Gloria noi vogliamo essere approvati dai nostri simili, sottomettendoli proprio a quelle nostre passioni e a quei modelli universali che ne sono le idee, nei quali possiamo essere maggiormente contrari gli uni agli altri ( Etica, definizione 44 degli Affetti; Etica III, 31 ed Etica IV, 37, Scolio I).

Ma in sé, in quanto sia invece Appetito attivo, determinato prevalentemente dalle leggi della nostra natura, la stessa Cupidità di cui l’Ambizione  è un eccesso, ossia l’aspirazione che gli altri ci imitino nel nostro modo di sentire, può esprimere una volontà positiva di umanità e di concordia, costituendo la Cortesia o Modestia della Moralità ( Etica III, 29, Scolio; Etica III, definizione 43 degli Affetti).

Si deve infatti notare anzitutto che è uno solo e medesimo l’ Appetito per il quale l’ uomo è detto tanto attivo quanto  passivo. Per esempio, noi abbiamo mostrato che la natura umana è stata disposta in modo che ciascuno appetisca che gli altri vivano secondo il suo modo di sentire ( vedi lo Scolio  della Proposizione 31 della Terza parte); e questo Appetito in un uomo  che non è guidato dalla ragione è una passione che viene detta Ambizione e non differisce molto dalla Superbia; mentre, in un uomo che vive  secondo il dettame della ragione, è una azione, ossia una virtù, che si chiama Moralità ( Vedi lo Scolio I della Proposizione 37 della Quarta Parte e la Dimostrazione 2 della medesima Proposizione.) “ ( Etica, V, Proposizione IV, Scolio).

( Vedi Etica III, 32, Scolio***).

Mentre l’Ambizione è una volontà  del nostro conformismo passivo, è la Cupidità di essere approvati dagli altri assoggettandoli alle nostre stesse passioni , la Moralità è invece l’ambizione del nostro conformismo attivo, è la volontà di unire a sé gli altri in amicizia che in noi è dettata dall’ Onestà, ossia dall’ esigenza, immanente alla ragione,  di comunicare la propria conoscenza intellettuale, che è quanto per Spinoza promuove  la vera vita di relazioni interumane.

La Moralità è dunque la volontà di conformismo attivo dell’ uomo libero che” non si conforma  a nessuno se non a sé stesso” ( Etica IV, 66, Scolio), ed aspira all’ accordo con gli altri uomini in ciò in cui gli uomini, cercando al massimo per sé il proprio utile, vivono prevalentemente secondo le leggi della loro natura individuale e convengono al massimo tra loro, rendendosi di somma utilità gli uni  agli altri, nel godimento comune della vita relazionale, il cui sommo bene, la conoscenza adeguata dell’ essenza eterna ed infinita di Dio, è un bene che  suscita unanime concordia, poiché ”è comune a tutti gli  uomini e può essere posseduto da tutti gli uomini, in quanto sono della medesima natura” ( Etica, IV, 36, dimostrazione), un bene, che per imitazione virtuosa degli affetti di gioia che sono costituiti dall’ amore intellettuale di Dio comunicato agli altri uomini, affinché tutti ne godano, e tanto più ( per la proposizione 37 della III Parte) quanto egli fruirà di questo bene…( Etica IV, 37, dimostrazione 1[m1] [m1]). [1][1]



[1][1] Confronta lo Scolio  I alla Proposizione 37 della Parte Quarta dell’ Etica
SCHOLIUM I. Qui ex solo affectu conatur, ut reliqui ament quod ipse amat, et ut reliqui ex suo ingenio vivant, solo impetu agit, et ideo odiosus est, praecipue iis, quibus alia placent, quique propterea etiam student et eodem impetu conantur, ut reliqui contra ex ipsorum ingenio vivant. Deinde quoniam summum, quod homines ex affectu appetunt, bonum saepe tale est, ut unus tantum eius possit esse compos, hinc fit, ut qui amant, mente sibi non constent, et dum laudes rei, quam amant, narrare gaudent, timeant credi. At qui reliquos conatur ratione ducere, non impetu, sed humaniter et benigne agit et sibi mente maxime constat. Porro quicquid cupimus et agimus, cuius causa sumus, quatenus Dei habemus ideam, sive quatenus Deum cognoscimus, ad  r e l i g i o n e m  refero. Cupiditatem autem bene faciendi, quae eo ingeneratur, quod ex rationis ductu vivimus,  p i e t a t e m  voco. Cupiditatem deinde, qua homo, qui ex ductu rationis vivit, tenetur ut reliquos sibi amicitia iungat,  h o n e s t a t e m  voco, et id  h o n e s t u m , quod homines, qui ex ductu rationis vivunt, laudant, et id contra  t u r p e , quod conciliandae amicitiae repugnat. Praeter haec civitatis etiam quaenam sint fundamenta ostendi. Differentia deinde inter veram virtutem et impotentiam facile ex supra dictis percipitur: nempe quod vera virtus nihil aliud sit, quam ex solo rationis ductu vivere; atque adeo impotentia in hoc solo consistit, quod homo a rebus, quae extra ipsum sunt, duci se patiatur et ab iis ad ea agendum determinetur, quae rerum externarum communis constitutio, non autem ea, quae ipsa ipsius natura in se sola considerata postulat. Atque haec illa sunt, quae in schol. prop. 18. huius partis demonstrare promisi, ex quibus apparet legem illam de non mactandis brutis magis vana superstitione et muliebri misericordia, quam sana ratione fundatam esse. Docet quidem ratio nostrum utile quaerendi necessitudinem cum hominibus iungere; sed non cum brutis aut rebus, quarum natura a natura humana est diversa, sed idem ius, quod illa in nos habent, nos in ea habere. Imo quia uniuscuiusque ius virtute seu potentia uniuscuiusque definitur, longe maius homines in bruta, quam haec in homines ius habent. Nec tamen nego bruta sentire, sed nego, quod propterea non liceat nostrae utilitati consulere et iisdem ad libitum uti; eademque tractare, prout nobis magis convenit; quandoquidem nobiscum natura non conveniunt et eorum affectus ab affectibus humanis sunt natura diversi. Vide schol. prop. 57. P. 3. Superest, ut explicem, quid iustum, quid iniustum, quid peccatum et quid denique meritum sit. Sed de his vide sequens scholium.
SCHOLIUM
 


 [m1][1][1] Confronta Etica  IV, £7, Scolio 1:SCHOLIUM I. Qui ex solo affectu conatur, ut reliqui ament quod ipse amat, et ut reliqui ex suo ingenio vivant, solo impetu agit, et ideo odiosus est, praecipue iis, quibus alia placent, quique propterea etiam student et eodem impetu conantur, ut reliqui contra ex ipsorum ingenio vivant. Deinde quoniam summum, quod homines ex affectu appetunt, bonum saepe tale est, ut unus tantum eius possit esse compos, hinc fit, ut qui amant, mente sibi non constent, et dum laudes rei, quam amant, narrare gaudent, timeant credi. At qui reliquos conatur ratione ducere, non impetu, sed humaniter et benigne agit et sibi mente maxime constat. Porro quicquid cupimus et agimus, cuius causa sumus, quatenus Dei habemus ideam, sive quatenus Deum cognoscimus, ad  r e l i g i o n e m  refero. Cupiditatem autem bene faciendi, quae eo ingeneratur, quod ex rationis ductu vivimus,  p i e t a t e m  voco. Cupiditatem deinde, qua homo, qui ex ductu rationis vivit, tenetur ut reliquos sibi amicitia iungat,  h o n e s t a t e m  voco, et id  h o n e s t u m , quod homines, qui ex ductu rationis vivunt, laudant, et id contra  t u r p e , quod conciliandae amicitiae repugnat. Praeter haec civitatis etiam quaenam sint fundamenta ostendi. Differentia deinde inter veram virtutem et impotentiam facile ex supra dictis percipitur: nempe quod vera virtus nihil aliud sit, quam ex solo rationis ductu vivere; atque adeo impotentia in hoc solo consistit, quod homo a rebus, quae extra ipsum sunt, duci se patiatur et ab iis ad ea agendum determinetur, quae rerum externarum communis constitutio, non autem ea, quae ipsa ipsius natura in se sola considerata postulat. Atque haec illa sunt, quae in schol. prop. 18. huius partis demonstrare promisi, ex quibus apparet legem illam de non mactandis brutis magis vana superstitione et muliebri misericordia, quam sana ratione fundatam esse. Docet quidem ratio nostrum utile quaerendi necessitudinem cum hominibus iungere; sed non cum brutis aut rebus, quarum natura a natura humana est diversa, sed idem ius, quod illa in nos habent, nos in ea habere. Imo quia uniuscuiusque ius virtute seu potentia uniuscuiusque definitur, longe maius homines in bruta, quam haec in homines ius habent. Nec tamen nego bruta sentire, sed nego, quod propterea non liceat nostrae utilitati consulere et iisdem ad libitum uti; eademque tractare, prout nobis magis convenit; quandoquidem nobiscum natura non conveniunt et eorum affectus ab affectibus humanis sunt natura diversi. Vide schol. prop. 57. P. 3. Superest, ut explicem, quid iustum, quid iniustum, quid peccatum et quid denique meritum sit. Sed de his vide sequens scholium.
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