Mi si consenta una breve disamina dell’ arte di Domenico Pesenti, ora che si è conclusa la grande mostra al Museo Diocesano sulla sua opera pittorica. In essa,” il padre della pittura mantovana del Novecento,” si è riproposto come rappresentante insigne di un’epoca che in tutte le arti fu di transizione, dalla tradizione classica alle avanguardie d’inizio Novecento (si pensi in tal senso ad un architetto che percorse per intero tale parabola come Otto Wagner). Fin dagli esordi accademici Pesenti è straordinario in ciò di cui meno ricerca l’insegnamento e ne necessita, nel ritratto e nella resa dei dettagli . Il rifiuto al contempo di andare a Milano scuola dell’Hayez è già quanto mai significativo di un rifiuto precoce e definitivo della pitturastorica, magniloquente e monumentale, della sua opzione invece per un sermo humilis nel linguaggio e nei contenuti espressivi, per una pittura di interni, prevalentemente ecclesiastici, di scene di vita popolare e domestica, quotidiana anziché epica. In essa egli è fedelissimo alla tradizione figurativa nella sua resa magistrale di prospettive esaltate da effetti di luce particolari, e lo è ancor più nella sintesi compositiva di insieme. Ma in tale sua attinenza fino al limite del bozzettistico a ciò che dettava il bello stile figurativo, oltreché, particolarmente durante il periodo fiorentino, a ciò che esigeva il mercato di vedute, era all’opera fin dagli esordi una resa dei particolari di un’innovatività assoluta, con accenni luministici mirabili di stoviglie e cucine e lavatoi o rigovernature, con tratti scomposti di pennello degli arruffii di piume di gallinacei da cortile, ( ad esempio ne “Il pollaio), per come stenografava con una pittura di tocco cori di chierici, vetrate o tribune di cantorie, incisioni di lapidi o scritture di codici e messali, profili di cornici lumeggiate e rilievi di colonne in sale di gallerie d’arte. Ciò dà origine già negli anni settanta a opere splendide, quando tale resa del dettaglio viene dilatata a visione pittorica più complessiva o globale ( vedansi allora la cucina eccezionale della “Lettera alla famiglia”, dentro un bozzetto di genere che più oleografico non potrebbe essere, o” La bottega del falegname”, di una monocromia che fa tutt’uno con la delineazione prospettica del tratto pervasivo e delineante di pennello. Di ritorno a Mantova e trascesa ogni descrittività esteriore , pur se resa con bravura di tecnica encomiabile, le tragedie degli affetti familiari, straziati da perdite, il distacco depressivo dalle domande di mercato e dalle urgenze del mondo, tanto più quanto è incalzante il disagio economico, lo orientano in tal senso a essenzializzare e ad astrarre sempre più il quadro in pura resa di luce e colore. Tale ricerca avrà sempre più il sopravvento sul soggetto figurativo e la sua logica d’impianto, vuoi elevando ad elemento primario ciò che davvero interessa il cuore e lo sguardo, lo sfondo del cielo o la materialità in primo piano di ciottolato e binari, ( in” La massicciata della ferrovia Mantova Monselice”, o” Il Ponte di diga Masetti”), vuoi privilegiando i notturni, per come le tenebre dei vicoli di Mantova agevolano il disfacimento formale degli edifici e delle tarde presenze in effetti di luce e di ombra intenebrantisi , oppure su carta vetrata frangendo in sfavillio e crepitio di luce i macchinari del’ industria più pesante. Sarà infine, a dare compimento al suo oltrepassamento della sintesi figurativo-prospettica di luce e colore in una sintesi pura di luce e colore, la volta suprema delle marine e dei laghi di Mantova: le loro vedute, dopo che nella “Morte della Vergine” del Mantegna furono raffermate in un lividore serale del 1462, conosceranno l’ inizio di una somma fortuna novecentesca proprio negli eccelsi esiti estremi di Domenico Pesenti : strisce di luce e colore, di cieli e terra e acqua. che preludono all’arte stessa di Rothko, come precorrono Morandi le ciotole o i trepidi caseggiati notturni di Pesenti. In essi, come nei suoi tardi ritratti, quelli più velati, aleggia un senso della realtà oramai fantasmatico, la cui manifestazione primaria è nei ritratti post mortem dell’amatissimo nipote Azzurrino. Quello di collezione privata esposto in mostra è un capolavoro assoluto. L’arredamento interno è altrettanto realistico, di un realismo che è ottico, nella resa luminosa dei dettagli materiali dei mobili lignei, quanto stavolta innovativa e irreale e’ la stessa composizione del loro rassemblement simbolico, secondo una poetica che evoca il Pascoli della Tessitrice: e al centro di tutto, Azzurrino è tanto teneramente bambino quanto trascende la residua realtà terrena di Domenico Pesenti, nel richiamo al suo al di là eterno, nell’ ora presente, del lancinante dolcissimo vaghissimo sguardo.
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