Non v’è volta che non torni al negozio di handicrafts, che
non vi ritrovi Kailash intento nel gioco del ludo, o ad assistervi su di un
seggiolino mentre vi giocano dei suoi amici, e che non debba tacergli la mia
angoscia, il mio sentimento di non farcela più, in un sorriso lieve e condiscendente, serbandomi pago che la nuova attività gli allevi le turbative della mente anche se non reca proventi.
Gli confidassi il mio tormento, tornerebbe a dirmi che non vuole più ricevere
il mio aiuto se mi fa talmente patire,
perché è cosi che gli prescrive il suo karma, che lui non è come gli altri del villaggio, e
provocherei solo la regolazione della fine di tutto, quando con le mie risorse ancora talmente
tanto è tuttavia possibile vivere e
fare, mentre ogni mio lavoro resta ancora da finire. Ma più forte della sua rassegnazione alla fine
di quanto tra noi è intercorso, con il mio soccombere emozionale al tradimento avaro della solidarietà delle
nostre sorti, so che scatenerei la
schizofrenia paranoide della sua sindrome d’abbandono, intorno al suo convincimento che invece
con Mohammad o con altri voglia rifarmi
una vita. E questo quando tutto può essere vero, che mi sia crollato il mio
castello indiano, che veda votato al
fallimento la mia personalità culturale e tutto ciò che io intraprenda, di più
bello, tranne che sia minimamente stanco
di lui e dei nostri cari.
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